Cronaca

Processo don Paolo Piccoli, confermata a Venezia la condanna a 21 anni e 6 mesi

Confermata la condanna a 21 anni e 6 mesi nel processo bis a carico di don Paolo Piccoli presso la Corte d'Appello d'Assise di Venezia annullata dalla Cassazione. La difesa attende le motivazioni per presentare ricorso.

La Corte d’Assise d’Appello di Venezia ha confermato la condanna a 21 anni e 6 mesi nei confronti di don Paolo Piccoli, convalidando la condanna già inflitta presso la Corte d’Assise d’Appello di Trieste e annullata dalla Suprema Corte di Cassazione che aveva accolto in pieno il ricorso presentato dalla difesa.

La sentenza di oggi, martedì 26 marzo, chiude il processo bis celebrato a Venezia, cui si è arrivati dopo la sentenza della Cassazione che nel marzo 2023 aveva annullato la condanna a 21 anni e 6 mesi pronunciata a Trieste dalla Corte d’Assise e confermata dalla Corte d’Assise d’appello. Il motivo principale dell’annullamento era la mancata ammissione dei consulenti di parte. La consulenza autoptica che aveva riscontrato la rottura dell’osso del collo e gli accertamenti del Ris sulle tracce di sangue trovate sul letto di don Giuseppe Rocco, la vittima, non sarebbero stati ammissibili. Don Paolo Piccoli non era stato avvisato quando erano stati disposti perché ancora non iscritto nel registro degli indagati.La difesa di don Piccoli è composta dall’avvocato Vincenzo Calderoni, del foro dell’Aquila – che ha presentato il ricorso accolto in Cassazione. Con lui anche il collega Alessandro Filippi, del foro di Venezia. Il collegio giudicante è composto da: Elisa Mariani, Margherita Brunello, Silvia Sagui, Leonardo Vacca, Stefania Borsato, Angela Boaretto, Licia Prosdocimi, Maria Giuseppina Galati, Paola Tonini. Il processo ha avuto un forte clamore mediatico: del caso se ne è occupata la trasmissione di Federica SciarelliChi l’ha visto” e sia a Trieste che a Venezia sono presenti in aula le telecamere della trasmissione “Un giorno in pretura” che ha mandato in onda durante la scorsa stagione una puntata dedicata, (a questo link la puntata integrale).

don Paolo Piccoli

Sacerdote veneto, incardinato nell’aquilano dove ha prestato servizio presso le parrocchie di Pizzoli e Rocca di Cambio, don Piccoli – che si è sempre proclamato innocente respingendo ogni accusa – per l’accusa ha causato la morte dell’anziano don Giuseppe Rocco, monsignore triestino all’epoca 92enne, rinvenuto senza vita  il 25 aprile 2014 all’interno della Casa del Clero di Trieste dove entrambi i presuli abitavano. All’inizio, dopo il ritrovamento del corpo senza vita del monsignore, si pensò a una morte naturale, data anche l’età avanzata.

don paolo piccoli processo

L’accusa di omicidio arrivò diverse settimane dopo, a seguito di autopsia. A fare il ritrovamento, l’assistente di don Rocco, Eleonora Laura Di Bitonto che tentò di rianimare l’anziano, come registrato anche dalla telefonata fatta al 118. Sempre la perpetua, sia prima che durante le fasi del processo, fu l’unica grande accusatrice di don Piccoli, sola destinataria, tra l’altro, della cospicua eredità di don Rocco, (consistente anche in alcune unità immobiliari) che – stando a quanto riferito dalla stessa – avrebbe poi diviso con i nipoti del monsignore. A don Piccoli venne contestato di aver ucciso don Rocco per impossessarsi di alcuni monili che il sacerdote aveva nella stanza e soprattutto della collanina che l’anziano prelato indossava sempre; una tesi più volte smentita dalla difesa durante tutte le fasi di dibattimento. La collanina – come accertato di nessun valore commerciale – di fatto non è mai stata trovata, nonostante le diverse perquisizioni nella stanza dell’imputato, “se non al collo della perpetua”, come ribadito più volte dalla difesa.

Il ricorso della difesa accolto in Cassazione

Il ricorso presentato dall’avvocato Vincenzo Calderoni – pienamente accolto dalla Suprema Corte di Cassazione – riguardava alcuni aspetti del processo ed in particolare, chiedeva di applicare un principio di diritto in riferimento alla ‘prova tecnica’ in conformità con alcune pronunce della Cedu (Corte Europea dei diritti dell’uomo). “La ragione per cui il processo è da rifare sta nel fatto che è stato violato il diritto alla difesa dell’imputato, ed in particolare il diritto cosiddetto delle ‘armi pari’, il quale vuole che nella prova tecnica siano sempre ascoltati i consulenti della difesa. Quest’ultimo principio contrastava con un principio in auge presso la Suprema Corte fino allo scorso anno quando è stato invece recepito il principio citato”, spiega al Capoluogo l’avvocato Calderoni.

 

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