Festa della mamma

Sabrina, una mamma speciale

di Alessia Arcolaci, Vanity Fair

Sabrina è una madre aquilana che non ha mai smesso di lottare. Neanche quando il cancro le ha tolto una figlia a 14 anni.

 

«Bè, che ti hanno detto?», «Che mi hanno detto…si chiama Sarcoma di Ewing», «Mamma mia che nome brutto, sembra quasi un tumore!», «Purtroppo sì, lo è. Avevi ragione tu ma noi siamo più forti…noi saremo Braccialetti Rossi». Inizia così la storia di mamma Sabrina, 36 anni e sua figlia Aurora, 14 che oggi non c’è più. Quella malattia dal nome orribile l’ha portata via, fingendo di sparire una volta e tornando più forte poco dopo.

Poco prima di chiudere gli occhi, Aurora ha chiesto a sua mamma di non smettere di sorridere, mai.

E anche se è difficile lei ci prova ogni giorno, ce lo ha raccontato scrivendoci una lettera. È a lei e a tutte le mamme che lottano ogni giorno accanto a figli malati, che dedichiamo la giornata della Festa della Mamma.

 

«Mi fece spallucce e con il sorriso mi disse “Mamma non piangere, tanto io già lo sapevo, che ti avevo detto che era quello? Tu devi stare tranquilla, l’unica cosa che ti chiedo è di non riportarmi all’ospedale dell’Aquila”. Lei lo sapeva, quante volte mi aveva detto “Mamma secondo me è un tumore, non puoi immaginare che dolore sia” e io rispondevo che era impossibile, era un anno che giravamo per ospedali, che in un fisico così giovane avrebbe avuto un decorso diverso. Cercavo di tranquillizzarla, chi l’avrebbe mai pensato? Lei sì, lo sapeva.

Con le lacrime le dissi che per stare bene, avrebbe dovuto fare la chemioterapia, con effetti collaterali devastanti. Così iniziò quest’avventura, se così si può chiamare. Il primo giorno si tagliò i capelli da sola. “Non voglio vederli cadere”, aveva detto. Nonostante tutto, continuava ad essere bellissima, lei, sorridente. Ma dentro era in guerra con il mondo. “Perché a me?” si domandava, “Cos’ho fatto di male?”. Piccola, 12 anni e mezzo, grande donna! Amante dello studio, della famiglia, ha trovato anche nel male una ragione che le dava la forza di combattere e andare avanti: la vita!

Il suo protocollo medico prevedeva anche l’intervento chirurgico, 12 ore di agonia. “Sua figlia è arrivata dopo quasi un anno e mezzo”, mi dissero, “Faremo del nostro meglio ma è una paziente ad alto rischio”. Il mio cuore, a metà battito, sua sorella a casa che viveva come un pacco postale. “Quando finirà tutto questo? Quando finalmente potremo stare tutte e tre insieme? Quando potremo riprendere la nostra vita normale?”.

Gestire tutto da lontano è impossibile, si finisce per cercare di organizzare telefonicamente la vita dell’altra bambina per poter assistere h24 la sorella in ospedale a Roma. Eh sì, perché oltre alla chemio ci sono i controlli in day hospital e la radioterapia due volte al giorno. La nostra agenda brulicava di impegni, neanche fossimo star di Hollywood!

Il medico del Gemelli ormai aveva impostato nel suo telefono le canzoni preferite di Aurora, la sua musica preferita. Terminati i cicli di radioterapia ne seguirono altri quattro di chemio e poi, a concludere, l’autotrapianto di cellule autologhe. Ogni tappa era un traguardo! Un passo alla volta, giorno dopo giorno. Senza alcuna pretesa in più. Perché il risvegliarsi ogni giorno, da quel giorno, vicino a lei, con lei, era un miracolo del cielo.

A febbraio 2016, terminato il percorso medico, tornammo definitivamente a casa. Io, lei e sua sorella! Costantemente sotto controllo ma con la felicità di tornare a vivere! I nostri screzi, le nostre liti, le nostre risate, la nostra vita. E la scuola, che lei adorava. Con 20 ore di lezioni private in matematica recuperò tutto il programma perché voleva frequentare il liceo scientifico. Un sogno che diventò realtà a settembre 2016. Tutta l’estate a studiare e a recuperare “il tempo perso”, quel tempo maledetto, che mai nessuno ti ridarà. I sogni di una adolescente stroncati sul nascere, che un’infida malattia le ha portato via.

Sembrava andasse tutto bene, quando una sera, vidi una scena già vissuta e nel chiedere a mia figlia cosa provasse, lei mi rispose: “Mamma il dolore è come quello che avevo al braccio”. Sì, perché tutto aveva avuto origine dal braccio destro, quel braccio bionico che ora lei aveva (grazie all’intervento del Regina Elena di Roma) purtroppo si era rivelato come una bomba ad orologeria. Scende il panico, risonanza, tac e pet- tac d’urgenza.

La vita ti scorre davanti agli occhi a tremila chilometri all’ora. Il responso, dopo un giorno, al Bambino Gesù: “Signora, ho parlato con la collega, purtroppo non ho buone notizie. Salga così parliamo”. Ero a tavola, all’ora di pranzo con lei. Mi si gelò il sangue perché capii. In quell’istante il mio cuore cessò di battere. Lei mi chiese chi fosse, lamentandosi che avrebbe potuto parlarmi anche per telefono. Le risposi che per motivi di privacy non sarebbe stato corretto e salii.

Proposero la terapia palliativa, perché nonostante il controllo con gli esami strumentali fatto poco più di due settimane prima, fosse risultato negativo, “lo stronzo” (così lo chiamava lei) era tornato. Ma come i fuochi d’artificio a Capodanno, non aveva risparmiato nulla questa volta. “Dal cranio ai piedi, a livello osseo, è un colabrodo che si sta sgretolando”. 14 giorni prima stava bene, 14 giorni dopo stava per morire. Questa fu la sentenza.

Mi dissero che avrebbe potuto fare una chemio che però sarebbe servita a poco, vista la situazione. La prima volta mi imposi io perché la facesse, come tutore, come genitore, come madre, scelsi per lei. Questa volta le dissi che le avrei lasciato facoltà di scegliere, abbracciate e con le lacrime agli occhi, perché sapevamo che stavolta sarebbe stato diverso. Che il male era tornato più cattivo di prima. Era contenta di essere tornata a vivere ma era stanca di combattere. 14 anni…la mia soldato Jane. E tra le lacrime, l’ennesimo sorriso, il suo.

Con la mano sinistra mi accarezzò il viso e guardandomi negli occhi mi disse: “Se c’è anche una sola possibilità…io non voglio morire, voglio vivere”. Purtroppo quel ciclo di chemio la destabilizzò ancora di più. La riportai a casa. Con il cuore straziato, la tristezza e la consapevolezza che di lì a poco ci saremmo separate. La riportai a casa, dai suoi cari, dal suo amore: Selomon. Sarebbe voluta “andarsene” (morire) a casa. Ma i dolori causati un sarcoma di Ewing non lo permettono.

Tornate a L’Aquila, il 4 dicembre 2016 divenne paziente del reparto della terapia del dolore. Uno staff unico ed eccezionale che ha reso il suo addio più “dolce”. Ad allietare i suoi ultimi giorni ci sono stati Salomon, il suo unico vero amore. Ciò che di più bello avesse mai potuto abbracciare il suo cuore. Sempre pronto, attento, premuroso, amabile. Una persona dall’anima unica, straordinaria, pura. Sua sorella Nicole, che ora vive con un cuore a metà, cercando di spalleggiarsi con il mondo, verso il quale aveva un’alleata, che ora solo dall’alto può aiutarla. E poi la sua famiglia.

Nonostante si stesse chiudendo l’ultimo capitolo del libro, la mia piccola grande donna, ha continuato a combattere fino all’ultimo con il sorriso. Da tre giorni era attaccata all’ossigeno quando mi chiese di farle una promessa. Con le lacrime le risposi che l’avrei mantenuta solo se lei avesse vegliato su di noi. Ridendo, mi asciugò gli occhi e mi chiese di smetterla, perché era lì, con noi. Tre giorni di caduta libera.

Aurora non ha mai parlato di morte, bensì di andarsene. Ebbene, il giorno prima di farlo, ormai non riusciva più a comunicare se non con i gesti, trovò la forza di togliersi l’ossigeno e chiedermi: “Mamma, cosa c’è sotto terra?”, con il nodo in gola perché capii a cosa si riferisse, le risposi spiegandole come fosse divisa in strati la terra. Lei mi ribatté, “guarda che lo so, l’ho studiato a scuola. La felpa e la matita che mi ha regalato Selomon non deve toccarli nessuno”. le risposi che ci avrei pensato io. Così ho fatto.

Capii cosa stava succedendo e cosa mi stesse chiedendo. Ma per una mamma, che in simbiosi ha vissuto con i propri figli, è a dir poco inaccettabile. “Se fossi morta, o morissi, come lo faresti il mio funerale?”, mi chiese durante un pranzo con gli amici, circa un anno prima. Le risposi che per il suo amore per la vita, le avrei fatto una festa. Con la sua musica, la nostra musica e i suoi amici. Mi disse che le sarebbe piaciuto.

Mano nella mano, occhi negli occhi…alle 12.40 del 25 gennaio 2017, Aurora se n’è “andata” via con me. La mia guerriera, ha vinto la sua battaglia. Tutto ciò che desiderava per la sua “festa”lo ha avuto. Mi chiese di non piangere…alla sua cerimonia asciugavo le lacrime agli altri. È stato un saluto straordinario ma nello stesso tempo straziante, dover recitare una parte che non mi compete ma le ho promesso di sorridere perché i nostri sorrisi saranno la sua serenità. Ma andare avanti è difficile.

Quasi quattro mesi in cui il mio cuore ha cessato di battere. Quattro mesi in cui la mia persona non fa altro che andare avanti come uno zombie. Quattro mesi in cui, insieme a sua sorella, troviamo difficoltà a cercare un appiglio per andare avanti. Quattro mesi in cui la sera alzo gli occhi e la cerco nella stella più luminosa del cielo, che non riesco a trovare perché ho gli occhi appannati dalle lacrime. Quattro mesi in cui mi viene l’istinto di scavare quella maledetta fossa per poterla stringere ancora una volta tra le mie braccia. Quattro mesi in cui quando vado a trovarla e ascolto e canto le nostre canzoni, oceani di lacrime mi attraversano il viso. Quattro mesi e una vita in cui manchi tu!

Da mamma non mi rimprovero nulla, anche quando stava per andarsene non mi sono fermata: Meyer, Santobono, Gaslini, Rizzoli, Veronesi, purtroppo per tutti lo stesso responso. Era il momento che tu andassi. Ho lasciato che lei scegliesse perché era stanca di combattere, ma sempre con il sorriso. Sono dell’idea che siano inutili l’accanimento terapeutico o le terapie alternative se, purtroppo, ciò che li aspetta è “quello”.

L’amore di un genitore è anche rispettare la volontà altrui. Se fosse stato possibile, come lei mi chiese, “sarebbe andata via ” a casa, ma non avrebbe avuto l’adeguata assistenza medica. L’unica terapia alternativa valida credo sia quella palliativa. Certo è che nessuno saprà mai cos’è giusto e cos’è sbagliato e soprattutto per chi. Esperienze del genere ti portano a riflettere su cosa di più bello e sincero ci sia nella vita, dando il giusto valore ad ogni cosa.

A volte mio muovo cercando, credo, di evitare qualsiasi cosa mi parli di lei. Poi, inevitabilmente qualcosa succede. Altre volte, invece, quando sento il bisogno di esplodere, scorro il suo telefono, 6833 foto, oppure ascolto la sua voce registrata nei nostri messaggi audio o in quelli scambiati con i suoi amici su WhatsApp.

Quando si perde un figlio, un genitore non se ne farà mai una ragione ma cerca di sopravvivere ad una vita, che vita non è più. Cerca di ricomporre un puzzle a cui mancherà sempre quel maledetto tassello. Piangerà lacrime quando, inevitabilmente, in ogni luogo, aspetto, canzone, ci sarà lui/lei, che ci ricorderà la vita trascorsa insieme per cui venderemmo anche l’anima al diavolo per poter riabbracciare, accarezzare, baciare, una volta soltanto…te!

Da mamma a mamma, a genitori, a tutti coloro che stentano come me ad andare avanti, va il mio augurio più sincero. Perché nessuno sa come noi, cosa vuol dire smettere di vivere e provare ad andare avanti nonostante tutto. Isolarsi da mondo, chiudersi in se stessi, indossare una maschera e continuare a sorridere per andare avanti, quando abbiamo la tempesta dentro e il sorriso più sincero, di chi ha toccato il fondo».