Cronaca

Disastro Marcinelle, identificato dopo 68 anni l’abruzzese Rocco Ceccomancini

Identificata la terza delle 14 vittime, ancora senza un nome, della tragedia di Marcinelle, avvenuta nella miniera di Bois du Caziers in Belgio l'8 agosto del 1956. Si chiamava Rocco Ceccomancini, era abruzzese, e aveva solo 19 anni.

Aveva solo 19 anni ed era una delle vittime più giovani a cui ancora non si riusciva a dare un nome. Si chiamava Rocco Ceccomancini e, finalmente, dopo 68 anni, quei poveri resti hanno finalmente un nome e un cognome. Il giovane abruzzese, originario di Turrivalignani, nel Pescarese, è uno dei 262 lavoratori rimasto intrappolato nel disastro di Marcinelle, l’8 agosto 1956.

Dei 262 lavoratori rimasti sepolti, di cui 136 abruzzesi, 14 non avevano ancora un volto ed un nome e Rocco Ceccomancini era tra questi. L’8 agosto del 1956, a causa di un guasto, si sviluppò un incendio che intrappolò tragicamente oltre duecento minatori a mille metri sotto terra. La maggior parte erano emigranti provenienti dall’Italia, di questi 136 erano abruzzesi, prevalentemente da Manoppello e dintorni.

Il riconoscimento è avvenuto grazie ad una accurata ricerca scientifica, attraverso l’analisi del Dna, sollecitata nel 2018 dai parenti di una delle vittime, Francesco Cicora, e affidata all’Incc (Institut National Criminalistique et de Criminologie) del Belgio, è stato possibile identificare già un paio di vittime. Nei giorni scorsi è uscito fuori il nome di una terza vittima, dei 14, come riferisce la testata giornalistica belga “DHNet”. Così come avvenuto per le altre due vittime riconosciute, Oscar Pellegrims e Dante Di Quilio, si è giunti alla identificazione di Rocco con il confronto del Dna fornito dai parenti.

Marcinelle, il ricordo di quel terribile 8 agosto

Lavoravano nelle viscere della terra, i minatori italiani, dove era sempre notte, per guadagnare 2.451 lire al giorno, poco più di un euro e 24 centesimi di oggi. L’incidente avvenne all’interno del “pozzo I”, in funzione dal 1830, con scarsa manutenzione e poca sicurezza. Quel pozzo serviva anche da canale d’entrata per l’aria. Alle 8,10, uno dei due ascensori, nella risalita con un carico di carrelli di carbone, urta in una sbarra metallica di sostegno che, a sua volta, trancia una condotta d’olio a pressione, i fili telefonici e due cavi in tensione, di 525 volt. Tutti questi eventi insieme provocano un imponente incendio che si sviluppa nel pozzo di entrata dell’aria, a 957 metri di profondità, ad uccidere i lavoratori. fu il fumo, non il fuoco. L’allarme venne dato solo alle 8,25.  Il 22 agosto 1956, alle 3 di notte, dopo la risalita, uno di coloro che da due settimane stavano tentando il salvataggio dichiarò in italiano: “Tutti cadaveri”. I sopravvissuti furono solo 13.

ll processo

Il processo in primo grado si celebrò a Charleroi dal 6 maggio al primo ottobre del 1959. Le 166 parti civili erano assistite da un pool di avvocati, ma la fase del dibattimento si trasformò in una battaglia tra periti, che decisero il verdetto. Alla fine, i cinque imputati furono tutti assolti. In appello, a Bruxelles, ci fu una sola condanna, quella di un ingegnere, a 6 mesi, con la sospensione condizionale della pena, e una multa di appena 2.000 franchi belgi. La società Bois du Cazier venne invece condannata a pagare una parte delle spese e a risarcire, per 3 milioni di franchi, solo gli eredi delle due vittime che non erano loro dipendenti. Fu presentato anche ricorso in Cassazione che però rinviò la causa. Finché, il 27 aprile 1964, la vicenda giudiziaria si chiuse con un accordo tra le parti.

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