Pasquale Iannetti si racconta. Le sue montagne, le sue vie, l’esperienza, le lezioni a scuola, la passione per le rocce e l’alta quota che domina la sua esistenza. Non manca qualche critica oggettiva sulla gestione del comparto montagna.
Il Gran Sasso come prima casa, le sue magiche Superga ai piedi, il mare nelle radici e un futuro disegnato sulle vette e nel cuore del vallone delle Cornacchie dove ha gestito per vent’anni il rifugio Franchetti.
Parliamo di Pasquale Iannetti che ha scritto con le sue imprese un pezzo di storia dell’arrampicata moderna.
Guida alpina, maestro di alpinismo e sci-alpinismo, ma anche geometra, mancato architetto, ristoratore, fotografo dilettante. Così si definisce. Critico e battagliero per la “costruzione” di una montagna migliore, aggiungo io.
Lo intervisto di buon mattino prima della sua abituale e quasi irrinunciabile uscita in montagna. “Piove molto in questo momento, ma aspetto che si apra una piccola finestra per tornare su un sentiero che sto perlustrando”.
Classe 1947, Iannetti tiene perfettamente banco ai più giovani con vie d’arrampicata in montagna di settimo grado e con più di quarantamila metri di dislivello l’anno tra scialpinismo e alpinismo invernale. Non a caso vive ai piedi del Corno Piccolo.
“Sono nato e vissuto quasi sempre in Abruzzo, dividendomi tra Mosciano Sant’Angelo, dove ho le radici, e Pietracamela. Vengo dal mare, ma il mio amore per la montagna è scoppiato fin da giovanissimo e non è andato più via”.
Nei giorni scorsi ha visitato l’Istituto Amedeo D’Aosta dell’Aquila, com’è andata con i ragazzi?
“Ho raccolto subito l’invito della professoressa Patrizia Peroni perché sapevo già che sarebbe stata un’esperienza positiva. Parlare di montagna con importanti dosi di passione arricchisci sia me che gli ascoltatori. Ancora oggi incontro persone conosciute nelle sezioni del CAI negli anni settanta che si ricordano di me e di ciò che avevo raccontato. La passione va tramandata e trasmessa, solo così resta”.
Sicurezza in montagna, quali regole da tenere a mente?
“Avventura e ponderatezza sono le mie parole d’ordine, confortate una citazione di Giorni di Ghiaccio di Marco Confortola che faccio mia: le vere Guide Alpine sono quelle che arrivano alla vecchiaia, di eroi sono pieni i cimiteri”.
Per vent’anni è stato il padrone di casa indiscusso del rifugio Franchetti. Che anni sono stati?
“Certamente i più belli della mia vita, ma anche i più difficili. Avevo 17 anni quando ho intrapreso la gestione. Scrissi una lettera a mano al Cai di Roma, quasi per gioco, e dà lì tutto ebbe inizio. Ero un giovanotto tutto fare all’interno delle sezioni del Cai e quello di Roma mi disse il fatidico Sì! Fui supportato nella firma del contratto della mia vita da mio fratello più grande visto l’ostacolo della mia minore età. Purtroppo questa esperienza finì nel più doloroso dei modi, a causa di screzi spiacevoli che mi costrinsero a lasciare il rifugio nel 1987”.
Come vede i Prati oggi?
“Vittima di una prigione senza via d’uscita e di una gestione fallimentare che perdura negli anni. Pur volendo dimenticare il passato e parlare solo del presente posso solo dire, purtroppo, che anche in questa stagione invernale vedremo gli impianti fermi. Sto facendo una battaglia ferocissima contro questa situazione di stallo in cui ci sono più colpevoli: si sta uccidendo un territorio che potrebbe vivere di turismo”.
E il Gran Sasso aquilano?
“Il versante aquilano se la passa un po’ meglio, qualcosa si muove sempre. C’è la gestione del Centro Turistico che non crea blocchi lunghi e permanenti come accaduto, per esempio da noi, con Prato Selva. Martedì ho passato la giornata a L’Aquila e ho avuto il piacere di vedere un Gran Sasso quasi inedito: i colori grazie alla neve erano quasi rari. Basta poco per innamorarsi ancora”.