Istruzione e necessita'

Scuola, inclusione e Bes, i Bisogni Educativi Speciali: nessuno deve essere escluso

La scuola è ufficialmente ripartita. Green pass, distanziamento, mascherine… Non dimentichiamo, però, le esigenze di tutti quegli studenti con Bisogni Educativi Speciali: i cosiddetti Bes. Nessuno deve essere lasciato solo.

La scuola è ufficialmente ripartita. Green pass, distanziamento, mascherine…ma il Covid19 non cancella le esigenze di tutti quegli studenti con Bisogni Educativi Speciali, i cosiddetti Bes. Nessuno deve essere lasciato indietro. Nessuno deve essere lasciato solo.

Ci sono studenti che, nel loro percorso scolastico, manifestano il bisogno di attenzioni speciali. Se ne argomenta spesso e, altrettanto spesso, se ne scrive. A volte, però, si fa confusione, anche a causa di una terminologia frequentemente utilizzata in modo poco accurato e preciso. Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta aquilana, Chiara Gioia. Bisogno, deficit, svantaggio, sono tutti termini che oggi sono ampiamente usati nella nostra società, a volte rendendoli interscambiabili erroneamente e tendenti a peculiarizzare alcune situazioni nell’ambito scolastico“.

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Bes, scopriamo i Bisogni Educativi Speciali

Attingendo dal latino, la parola “ bisogno” vuol dire occuparsi, prendersi cura.

“Il bisogno indica una mancanza, una necessità. Ed è proprio la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 a consentire l’uso dei ‘Bisogni Educativi Speciali’ (BES). Oggi, nelle nostre scuole vi è la presenza di alunni che presentano una richiesta di attenzione speciale per molte ragioni: quali possono essere, ad esempio, lo svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana, perché appartenenti a culture diverse.

“La sigla BES, allora, vuole rispondere ad antiche e giuste esigenze di trattamento personalizzato di tutti gli alunni, i quali, nel loro percorso di crescita e formazione – con continuità o per determinati periodi – possono manifestare Bisogni Educativi Speciali o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e individualizzata risposta.

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L’utilizzo dell’acronimo BES indica una vasta area di alunni per i quali non è possibile fare diagnosi di Disturbo specifico di apprendimento, bensì è il disagio stesso che tende a compromettere lo stesso.

Il loro bisogno di sviluppare competenze di autonomia “è complicato dal fatto che possono sussistere deficit motori, cognitivi, oppure difficoltà familiari nel vivere positivamente l’autonomia e la propria crescita personale. Ciò li porta ad avere necessità di un supporto educativo personalizzato“.

I BES comprendono tre grandi sottocategorie, quali: disturbi evolutivi specifici, disabilità e svantaggio socio-economico, linguistico e culturale.

Come intervenire?

Ènecessario “tessere una rete”, in cui scuola e famiglia – agenzie formative per eccellenza – devono poter e saper dialogare, ascoltare, accogliere: per entrare in sinergia tra loro e poter cooperare. Nello specifico, vi è un team specialistico multi-professionaleche ha il ruolo di effettuare una valutazione, formulare diagnosi e definire un progetto complessivo di intervento che viene comunicato alle famiglie. Stabilendo cosi un contatto con il personale scolastico, al fine di integrare programmi educativi e interventi specifici”, ci spiega la psicologa e psicoterapeuta.

Gli alunni con Bisogni educativi speciali hanno il diritto di esser integrati nel sistema pedagogico.

Bes, il diritto dell’inclusione

Oggi la scuola, vicina alle attuali esigenze, riconosce e muove verso il concetto di inclusione, “cioè il sentirsi parte di un gruppo-classe, che riconosce, rispetta e stima. Inoltre, la sigla BES chiama anche in causa un altro concetto: quello di “speciale normalità”. Vale a dire il bisogno che questi alunni hanno di essere e sentirsi come gli altri, ovvero che l’essere speciale venga inteso come ‘accoglimento di specifici bisogni’ e non come carattere di esclusione, bensi di esclusività. Come lo è d’altronde ogni singolo individuo, con la propria identità ed il proprio modo di essere”.

Una scuola si può definire inclusiva quando insegna ad ogni singolo alunno a riconoscere, accogliere e valorizzare l’alterità: come fonte inesauribile di ricchezza per la crescita di ognuno.

“Gli articoli 2, 3 e 34 della nostra Costituzione fanno ben comprendere come l’ambiente scolastico diventa inclusivo quando tende a rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione alla vita sociale degli alunni, quindi anche all’esperienza didattico-educativa delle persone”.

Bes, ci sono anche le famiglie

Attenzione va data anche alle famiglie.

“La disabilità o un rilevante ‘bisogno speciale’ di un componente della famiglia comporta sempre una “perturbazione”, non per forza persistente e patologica, all’interno del sistema familiare. La letteratura scientifica ci indica alcune variabili che incidono in senso negativo, quale ad esempio la gravità e la tipologia della patologia o anche la ‘desiderabilità sociale’. Assumere un adeguato atteggiamento che sia socialmente accettabile, in questo caso, costituisce una vera e propria reazione di difesa che varia molto da famiglia a famiglia. Coesione e flessibilità, rafforzamento di cambiamenti strutturali nel sistema familiare per affrontare il problema, sono elementi che incidono positivamente sulla capacità del nucleo familiare di gestire stress e accettare adeguati supporti, quale un sostegno psicologico e/o un percorso di psicoterapia“.

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“Può capitare – aggiunge in conclusione Chiara Gioia – che le famiglie, spesso come reazione a una situazione critica non risolta, tendono a relazionarsi con la scuola con un atteggiamento e un comportamento poco collaborativi. Capita, ad esempio, che si applichi la normativa sui Bes, interpretando non correttamente i bisogni veri e propri dei bambini, nel tentativo dei genitori di trovare soluzioni a determinate criticità riscontrate. Sono i casi in cui si va alla ricerca di misure compensative. Queste, però, andrebbero adottate solo quando si ha l’assoluta certezza che non ci sia un altro modo per far giungere il bambino a una sufficiente autonomia: perché, spesso, alcune soluzioni potrebbero dare ‘benefici’ tangibili e immediati, ma potrebbero altresì impedire di giungere lì dove le potenzialità – adeguatamente nutrite e sfruttate – potrebbero condurlo nel tempo”.

 

 

chiara gioia

Il Capoluogo propone una rubrica di approfondimenti curata dalla psicologa e psicoterapeuta Chiara Gioia, attraverso appuntamenti settimanali. La psicologia e la terapia, per troppe persone, restano ancora un tabù. Intraprendere un percorso di terapia non vuol dire soffrire di una malattia, tuttavia sono ancora molti i luoghi comuni sulla psicoterapia e i pregiudizi su chi decide di fare delle sedute dallo psicologo. Fare terapia vuol dire, semplicemente, capirsi e mettere al primo posto il proprio benessere.

 

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