Cultura

Moti per L’Aquila capoluogo: 50 anni fa la rivolta del popolo

Sul finire di febbraio 1971 i moti per L'Aquila capoluogo. 50 anni dopo, la ricostruzione e l'analisi dei fatti di Fulgenzio Ciccozzi per Il Capoluogo: in verità, il ruolo dell’Aquila come capoluogo non fu mai messo davvero in discussione, ma la città avrebbe dovuto svolgerlo accettando il ruolo da comprimaria. Ed era quello che gli aquilani temevano.

Quello che accadde all’Aquila nel 1971, anno in cui si sanciva la scelta del capoluogo di Regione, fu la conseguenza della due contrapposte anime che caratterizzavano e caratterizzano l’Abruzzo la cui diversità è insita nel nome che può essere declinato anche al plurale: Abruzzi.

Proviamo ad analizzare il contesto socio economico in cui venne a trovarsi L’Aquila in quel periodo. Nel novembre del 1968 iniziarono i lavori per la costruzione del traforo del Gran Sasso la cui apertura venne poi tenuta a battesimo nel 1984 dall’allora primo ministro Bettino Craxi.

moti l'aquila

Il 12 dicembre del 1970 fu inaugurata l’Autostrada Roma-L’Aquila ed erano gli anni in cui la Sit Siemens si apprestava a diventare una delle fabbriche più imponenti del Meridione. Ma gli effetti di queste importanti iniziative si sarebbero visti solo dopo qualche anno.

Infatti, dal 1961 a 1971 la popolazione della città continuò a decrescere. Purtroppo le attività del terziario non riuscirono ad assorbire il massiccio esodo dei lavoratori che interessò le campagne e diede il via a un movimento migratorio che spinse la gente a cercare occupazione in nord Italia o all’estero.

Diversa sorte subì la fascia costiera, soprattutto l’hinterland Pescarese, che ebbe un incremento di popolazione poiché risultava essere l’unico polo economicamente più attivo della Regione, sostenuto dall’imponente sostegno delle infrastrutture di trasporto (ferrovia, porti, strade).

In tale contesto, il 7 giugno del 1970, i cittadini abruzzesi vennero chiamati alle urne per esprimere il voto con il fine di eleggere per la prima volta i consiglieri che avrebbero guidato la Regione Abruzzo. Nel 1949 ci fu il primo tentativo di attuare la Costituzione con la creazione delle regioni.

Il ministro Scelba mise a punto un disegno di legge in cui veniva indicato il nome del capoluogo di ogni regione, le uniche prive di tale indicazione erano L’Abruzzo e la Calabria.

La legge venne poi promulgata nel 1953. Ma torniamo alle elezioni della primavera del 1970. Gli eletti, oltre che guidare il nuovo Ente, avrebbero avuto l’arduo e importantissimo compito di elaborare e approvare lo Statuto che includeva la scelta del capoluogo.

l'aquila capoluogo

La DC raggiunse il 48,3% dei consensi, il PCI il 22,80%, il restante consenso fu ottenuto dagli altri partiti la cui componente più consistente era costituita dal blocco socialista. Era evidente che la Dc e il PCI avrebbero avuto un ruolo di primo piano nelle scelte da adottare per mettere a punto lo Statuto.

Il partito comunista pareva assumere una posizione più coesa la quale prevedeva che la scelta del capoluogo sarebbe ricaduta su L’Aquila, senza però poter ignorare le esigenze di Pescara, una città con un modesto passato ma assetata di futuro. La DC invece, pure ritenendo che il capoluogo non poteva essere che L’Aquila aveva posizioni più ballerine.

Insomma, in entrambi i casi, si delineava che L’Aquila sarebbe stata un capoluogo sulla carta ma di fatto ridimensionato. Il 26 febbraio del 1971 si riunirono all’Aquila i quaranta consiglieri regionali per votare lo Statuto che alla lettura del presidente Emilio Mattucci indicava come Capoluogo e sede degli organi della Regione è la città dell’Aquila e che La Giunta si organizza in dipartimenti aventi sede con i propri uffici a L’Aquila con 3 componenti per gli affari generali e l’organizzazione regionale, a Pescara con 7 componenti per gli affari economici e settoriali, specificando erroneamente che “il Consiglio e la Giunta regionali si riuniscono a L’Aquila e a Pescara”, e non o a Pescara.

Quella congiunzione che avrebbe messo entrambe le città sullo stesso piano, apposto di una disgiunzione, intesa come luogo di riunione Pescara come extrema ratio, faceva apparire il quadro molto incerto.

Questo errore di lettura diede il via alle prime proteste con il lancio di monetine da parte dei cittadini convenuti in massa.

Inoltre, la distribuzione degli assessorati tra L’Aquila e Pescara non piaceva, poiché si capiva sin da subito che L’Aquila avrebbe dovuto cedere competenze (e che competenze) alla città adriatica Lo Statuto venne approvato con votazione pressoché unanime: 38 sì (tutti i partiti), tranne uno assente (PSI) e uno contrario (MSI). Sabato, 27 febbraio all’Aquila era una giornata particolarmente fredda.

Quel giorno, la sera, trasmettevano la finale del festival di San Remo che sarebbe stato vinto da Nicola di Bari con la canzone “Il cuore è uno zingaro”. Ironia della sorte! Ore 4,00 del mattino, era da poco terminato il consiglio regionale, i primi gruppi di rivoltosi iniziarono a formare le barricate per chiudere le strade di accesso alla città. Ai Quattro Cantoni vennero ammassati e dati alle fiamme copertoni per inibire il traffico nel cuore della stessa. Alle 6,00 iniziò a divulgarsi la notizia di uno sciopero generale: restarono aperte solo le chiese e le farmacie.

Per le vie della città i clacson delle auto e i rintocchi delle campane delle chiese annunciavano la movimentazione generale. Alle 9,00 iniziarono le devastazioni. Si assaltarono le sedi della DC, PLI, PSDI. Alle 9,40, migliaia di persone si riversarono a piazza Palazzo e iniziò l’assedio alla federazione del Partito Comunista dove erano rinchiusi un centinaio di funzionari e iscritti, i quali, con la mediazione del Questore, vennero lasciati uscire incolumi. I rivoltosi occuparono, devastarono e incendiarono la sede del partito.

Alle 10,00 il sindaco Tullio de Rubeis comunicò che l’intera amministrazione si era dimessa (anche la giunta provinciale si dimise) lasciando la città senza governo, in balia di se stessa, proprio in piena sommossa, terminata la quale la Giunta rientrò in carica.

Una mossa francamente incomprensibile oltre che irresponsabile. Alle ore 16,00 venne assaltata, devastata e incendiata l’abitazione del segretario democristiano Luciano Fabiani. Sempre nel pomeriggio ci furono tentativi di assaltare le abitazioni dei consiglieri regionali Brini del PCI (il quale venne minacciato anche con lettere minatorie), Merli della DC e del sottosegretario agli Interni l’onorevole del PSI Nello Mariani.

In Corso Federico e in Corso Vittorio Emanuele la situazione si apprestava a diventare incontenibile. Già erano stati chiamati in soccorso i celerini da Roma.

Pervennero all’ospedale San Salvatore le prime richieste di soccorso. I contestatori provarono ad assaltare la Questura, senza esito. Poi la Prefettura diventò il centro delle contestazioni: bombe molotov, sanpietrini, lacrimogeni accesero lo scontro tra i rivoltosi e le forze dell’ordine. Alle 20,30 i contestatori incendiarono il distributore di benzina a piazza Duomo, poi si riversarono al negozio di Monti (un industriale di Pescara), anch’esso venne distrutto e dato alle fiamme, i vestiti furono gettati e sparpagliati per strada. Lo scontro andò scemando intorno alle 21,00.

Questo fu il primo bilancio di una contestazione popolare, perché tale era, anche se includeva piccole frange esterne, in cui il buonsenso aveva lasciato il posto alla violenza. Si volle attribuire a questi moti una matrice fascista, invece fu una rivolta di popolo come sostenuto dai manifesti che uscirono i giorni successivi in cui L’Aquila si dichiarava antifascista e che la città “ha respinto con sdegno le manovre frontiste che, ai fini della polemica contro il Governo, intendono imprimere un marchio fascista sulla fisionomia della città”.

Delle contestazioni, che proseguirono fino alla giornata di lunedì, se ne occuparono tutti media nazionali. In definitiva, la legge 480 del 22.07.1971 inerente allo Statuto venne approvata e pubblicata nella Gazzetta ufficiale di fine luglio senza che le proteste degli aquilani riuscirono a cambiarne il contenuto.

Insomma fu dato un colpo al cerchio e una alla botte che soddisfece solo parzialmente l’esigenze delle due città, soprattutto dell’Aquila la quale, nonostante gli fosse stato riconosciuto il ruolo di capoluogo, doveva comunque fare i conti con una Pescara in forte crescita la quale, pur avendo la consapevolezza di non poter assurgere a quella posizione, chiedeva di avere voce in capitolo al fine di determinare le politiche economiche e il futuro di questa Regione.

In verità, il ruolo dell’Aquila come capoluogo non fu mai messo davvero in discussione, ma la città avrebbe dovuto svolgerlo accettando il ruolo comprimaria. Ed era quello che gli aquilani temevano.

Temevano veder minacciato il loro futuro. Questa, se vogliamo, è la storia delle due anime degli “Abruzzi”: una ben rappresentata da L’Aquila la quale ha una vocazione nel terziario e l’altra, Pescara, a inclinazione commerciale e industriale, che ha i propri interessi verso l’Adriatico (e questo l’ex presidente di Regione lo aveva ben capito spingendo a suo tempo per la creazione di una regione macroadriatica in cui Pescava poteva diventarne il centro propulsore, mentre L’Aquila, in quel contesto, avrebbe avuto un ruolo senz’altro marginale).

Non solo la fascia costiera rientra nell’interesse della città dannunziana però, e questo l’amministrazione pescarese lo tiene bene in mente e, aggiungo, avvedutamente, considerando l’importanza che riveste la capitale d’Italia (il potenziamento della linea ferroviaria con la stessa ne è una tangibile dimostrazione).

L’Aquila città d’arte, città storica, città di tradizioni, città di cultura dovrà aprirsi sempre di più per agguantare il suo futuro il quale non potrà che prescindere dallo storico legame che ha con Roma portando avanti un progetto di sviluppo, flebilmente auspicato in passato e mai portato a compimento, che negli ultimi tempi non è stato degno nemmeno di considerazione (i sindaci Raggi e Biondi che io sappia non hanno avuto alcun incontro di rilievo in questa legislatura).

Forse per guardare avanti bisogna volgere lo sguardo indietro e auspicare che figure di rilievo, come lo furono a suo tempo Lorenzo Natali, Vincenzo Rivera, Nino Carloni (solo per citarne alcuni), riescano a emergere per far sì che il capoluogo abruzzese possa agganciare quel treno che lo conduca verso mete degne del suo passato.