30 anni dopo la sua cattura, il top gun aquilano Maurizio Cocciolone si racconta, in esclusiva, al Capoluogo. Uno sguardo a questi 30 anni, a quello che è successo, a come è cambiata la sua vita: nessuna polemica e i ricordi, sempre vividi, che tornano alla mente.
My name is Maurizio Cocciolone. 30 anni fa la cattura del top gun aquilano durante la prima Guerra del Golfo, che oppose l’Iraq ad una coalizione composta da 35 Stati formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti.
My name is Maurizio Cocciolone: 30 anni fa la cattura del top gun aquilano
Le immagini sgranate, la voce metallica, i segni evidenti di violenze sul volto gettarono nell’angoscia un intero paese e soprattutto L’Aquila, la città nella quale Maurizio Cocciolone, 60 anni fa, è nato.
Maurizio Cocciolone in una fotografia di qualche anno fa, sul Gran Sasso
Schivo, mai alla ricerca di visibilità, “forte e gentile” come gli abruzzesi amano essere, fiero delle sue radici e di quanto è riuscito a costruire, Maurizio Cocciolone ha accettato, 30 anni dopo la cattura, di farsi intervistare in esclusiva dal Capoluogo. Uno sguardo a questi 30 anni, a quello che è successo, a come è cambiata la sua vita: nessuna polemica e i ricordi, sempre vividi, che tornano alla mente.
In partenza per l’Iraq
Sono passati 30 anni esatti da quel “My name is Maurizio Cocciolone” che l’ha portata nelle case di tutti gli italiani, con un gran carico di angoscia. Che effetto le ha fatto questo anniversario e, in generale, gli anniversari di quell’evento?
Tralasciando i vari eventi celebrativi – in particolare quello del venticinquennale della liberazione del Kuwait che mi ha visto direttamente coinvolto ma cui, pur già nel bel mezzo del viaggio, non ho potuto partecipare a seguito di varie peripezie burocratiche (qualcuno si era dimenticato del visto) – lo vivo da anni come una giornata qualsiasi: senza patemi d’animo, traumi o sentimenti di orgoglio particolari.
44 giorni di prigionia non si dimenticano, ovviamente. Ma il tempo ha sbiadito un po’ i ricordi? Qual è l’aspetto (un odore, una sensazione, un rumore) che le è rimasto particolarmente dentro, di quei lunghissimi giorni?
Sono brutti, ma sempre vividi i ricordi di quelle tristi giornate nelle quali mi sentivo costantemente appeso ad una bilancia, in bilico tra la vita e la morte, dove l’unico e costante appiglio alla vita era rappresentato dai felici ricordi familiari e dell’infanzia con i miei fratelli, con i cugini e le cugine, con gli amici e le amiche della mia amata L’Aquila bella me’.
Ma parlando di ricordi, i morsi della fame e della sete, il bruciante dolore che giorno e notte mi lacerava la parte sinistra del corpo svaniscono al ricordo di una notte quando, racchiuso tra quattro pareti di cemento armato e una porta blindata di qualche centinaio di chili, fummo oggetto di una incursione di bombardieri statunitensi. Spietatamente centrarono con precisione millimetrica le fondamenta di quel palazzo che, fortunatamente, non cedette. Per ironia della sorte, poi, rimasi chiuso solo soletto in quella fortezza scricchiolante per non so quanto tempo… uno o due giorni, in attesa che venissero recuperate le chiavi di quella ‘cassaforte’, nel costante terrore di essere dimenticato lì dentro sino alla morte.
Ha raccontato di torture, di aver subito una lacerazione della lingua, suturata dai suoi carcerieri. Quando è tornato poi a volare?
Vari mesi dopo la liberazione, a seguito di una lunga e dolorosa terapia riabilitativa condotta tra gli angeli del reparto di Neuropsichiatria infantile di Collemaggio, a L’Aquila. Fu la fine di un incubo, il recupero di un senso alla mia vita, quando già mi vedevo oramai definitivamente non più idoneo al volo militare, se non invalido ‘tout court’.
Tornado in attività di rifornimento in volo
Cosa è successo in questi 30 anni a Maurizio Cocciolone? A livello lavorativo, nell’Aeronautica, ma anche di “nuova vita” personale.
Sono stati anni intensissimi. Esercitazioni oltreoceano ‘red flag’ (una delle esercitazioni aeree più complesse e realistiche organizzate a livello internazionale presso la base americana di Nellis, in Nevada ndr) come leader di formazione internazionale con il mio caro amico Bob Belgrado, istruttore di volo per la transizione di un nuovo gruppo operativo sul Tornado; tre anni di attività di volo operativa nelle operazioni in Bosnia e Kossovo con il velivolo Nato Awacs; il comando di un gruppo di intercettori teleguidati. A questi si aggiungono altri incredibili anni a Roma negli Stati Maggiori dell’Aeronautica e della Difesa, nei settori comando e controllo, tecnologie avanzate e intelligence, così come otto mesi in Afghanistan come comandante della task force Aquila, per la stabilizzazione della regione ovest del paese e la costruzione di un aeroporto militare.
In questi anni ho poi avuto la benedizione di tre figli: Andrea Silvia, Alessandro e Asia.
Maurizio Cocciolone insieme ai suoi tre figli, al Castello dell’Aquila. Sotto, con i figli Andrea Silvia e Alessandro.
Qual è stata la sua esperienza lavorativa più intensa e che le ha dato maggiormente soddisfazione?
Senza dubbio l’operazione in Afghanistan. Ha completamente mutato la mia visione di militare, rendendomi partecipe e responsabile, insieme ad un gruppo di militari giovani e meno giovani di varie Forze Armate, di una delle più importanti e complesse operazioni militari che hanno visto coinvolta l’Aeronautica militare dopo la seconda guerra mondiale, sia dal punto di vista logistico – con l’attivazione di una base aerea in soli 45 giorni in un territorio estremamente ostile – sia dal punto di vista militare, con la responsabilità di una base di un migliaio di uomini di varie forze armate e vari paesi, nel cuore del dominio talebano ancora forte e aggressivo.
Ma le difficoltà, i bombardamenti notturni e gli attacchi suicidi passavano in secondo piano di fronte al sorriso e al pianto di creature innocenti che chiedevano aiuto in silenzio, con i corpi martoriati da esplosioni o devastanti malattie, da noi curabili con semplici medicinali di tutti i giorni. Sentirmi, in qualche modo, portatore di pace e sicurezza, di speranza per un popolo oramai assuefatto alla sofferenza, pur in un periodo limitato, mi inorgogliva e mi dava la forza e la volontà di non desistere, nel dare il mio contributo al tentativo di porre fine a quella tragedia. Mai come quella volta mi sentii orgoglioso di far parte della Nato, dell’Italia e delle sue forze armate.
Missione Atoc Cato, l’arrivo dell’allora ex Presidente del Governo di Spagna José Zapatero
Da Pettino ai cieli del mondo: ci racconta la sua vita aquilana e il rientro a L’Aquila, dopo la liberazione? Che rapporto ha avuto in questi anni con L’Aquila?
Tutto ebbe inizio sotto le fronde della noce di mio nonno, quando mi ritrovavo a sognare, perso tra le stelle di quelle notti ancora scevre di riflessi artificiali… con gli anni, complice un manifesto pubblicitario appeso ai muri della stazione ferroviaria, mi diedero il coraggio, all’insaputa di papà e mamma, di inviare la raccomandata per l’iscrizione al concorso per l’ammissione alla Accademia Aeronautica. Da lì fu un lampo: io e una valigetta 24h sul trenino che da Roccaraso porta a Napoli, tra l’ironia dei miei amici, al termine dell’ultima serata da adolescente al Koala disco club. Battesimo al volo alla scuola di Latina, poi Lecce, Texas, California, New Mexico, Foggia, Inghilterra per il conseguimento dei brevetti ed il passaggio macchina sul velivolo Tornado. Dopo anni di esperienze indimenticabili, tra vari continenti e paesi, fui finalmente assegnato alle Pantere Nere del sesto stormo caccia Diavoli Rossi, dove ebbe inizio la mia vita operativa, all’inizio smarrita nell’orrido oblio della guerra fredda, ma presto esplosa in operazioni entusiasmanti: trasvolate oceaniche, esercitazioni internazionali, missioni notturne tra le montagne alla ricerca dei nascondigli dove venivano tenuti prigionieri i rapiti della mafia calabrese… fino ad arrivare a operazioni belliche, sì: ma sempre operazioni di liberazione e di supporto alla pace, di cui mi ritrovai e sono tutt’oggi orgoglioso.
Il mio rapporto con la mia amata città di origine è sempre stato e rimane vivo e forte. Fu rassicurante quando sentii l’abbraccio gioioso e protettivo al mio ritorno dalla prigionia, fu straziante all’alba del 6 aprile del 2009, alla vista delle macerie tra i vicoli e gli edifici che avevano incorniciato la mia infanzia. È emozionante ogni volta che attraverso la galleria che apre lo scorcio sulla città. È amoroso al pensiero della mia vecchiaia con gli amici di infanzia tra le mura, le fontane e sotto i cari portici.
Le sue radici l’hanno aiutata nel corso della sua carriera?
Sentirmi forte e gentile, onesto e generoso, con le solide fondamenta di una provenienza umile ma sana, sono i pilastri che mi hanno sempre aiutato in tutte le vicissitudini della vita passata e che mi sostengono tutt’oggi, pur in un mondo sempre più complesso e irriconoscibile.
La Guerra del Golfo è stata, probabilmente, la prima guerra che da un punto di vista mediatico è entrata in maniera così viva nel vissuto degli italiani. Qual era la vostra percezione allora? E qual è la sua percezione ora, quando vede immagini di guerra?
La globalizzazione mediatica delle guerre porta immagini di devastazione, terrore e morte nelle case di tutti noi; mi piace pensare che ciò non porti a una spersonificazione ed a una spettacolarizzazione di quegli eventi tragici per tutti ma che, al contrario, li renda visibili e percepibili affinché possano essere di lezione all’umanità.
È sempre stata una persona molto riservata, con pochissime interviste rilasciate. Rifarebbe tutto così?
La mia indole abruzzese, sincera e riservata, è il fondamento del mio essere: non potrebbe essere diversamente.
Ognuno di noi lascia una traccia, nel mondo. Lei ha seguito la traccia di qualcuno? Si è mai ispirato a qualcuno? E che tipo di scia pensa di aver tracciato finora?
Accanto alla pacata ed umile, ma competente, perseveranza di Angela Merkel ed alla splendente umanità di Madre Teresa, per me da decenni esempi inscalfibili, ho sempre avuto come riferimento la traccia della mia famiglia, umile ma onesta.
Da parte mia, spero di essere riuscito a trasmettere ai miei figli la coriacea forza dei miei nonni; la semplice determinazione, unitamente all’attaccamento ed allo spirito di sacrificio per la famiglia, dei miei genitori; la mia incrollabile voglia di fare, sperimentare, mettermi in gioco.