Le nuove stanze della poesia

Le nuove stanze della poesia, Giorgio Caproni

Il ritratto e lo stile di Giorgio Caproni, poeta e saggista livornese, per l'appuntamento con la rubrica Le nuove stanze della poesia.

Il ritratto del poeta Giorgio Caproni per l’appuntamento con la rubrica Le nuove stanze della poesia a cura di Valter Marcone.

I giorni 7 e 22 del mese di gennaio ci ricordano entrambi un anniversario, quello della nascita e della morte di Giorgio Caproni.

Un poeta schivo e riservato che ha vissuto tutta la vita impegnato nel suo lavoro di maestro elementare, di traduttore e saggista per arrivare anche se in età matura alla poesia, alla quale ha donato la sua vita scrivendo versi indimenticabili. Nasce in gennaio a Livorno , il 7 dell’anno 1912 e muore il 22 a Roma, all’età di 78 anni nel 1990.

Il ricordo più importante della sua infanzia e adolescenza, come egli stesso afferma ,è il trasferimento della famiglia a Genova che riterrà sempre la sua città di elezione anche se tornando a Livorno non riesce mai a scacciare dal cuore quel senso non tanto di nostalgia quanto di appartenenza.

Vive poi a Roma dove frequenta Pasolini, Bigiaretti, Bassani, il critico Franco Ulivi, il poeta Bettocchi e altri uomini di cultura.

Oltre all’allegoria una modalità importante della sua poesia è la musicalità del verso.

Amante della musica riesce a ricreare particolari atmosfere sonore come una vera e propria partitura dove si fanno, per esempio, protagoniste le città in cui visse , in particolare Genova, Livorno e le strade periferiche di Roma, le amate figure femminili e il tema del viaggio, metafora della vita.

Conseguito il diploma magistrale cominciò ad insegnare alle scuole elementari, ma la sua vita fu segnata dalla morte della fidanzata poco prima delle nozze. Nel 1938 si trasferì a Roma, intanto aveva conosciuto Rina, la “nuova speranza”, che presto divenne sua moglie. Finita la Seconda guerra mondiale scelse definitivamente l’insegnamento come principale professione, presso una scuola di Roma.

Scrive poesie e racconti, collabora a riviste letterarie e a traduce autori francesi tra cui Marcel Proust, Charles Baudelaire, Gustave Flaubert e Apoilinnaire.

Spesso fa ritorno a Genova per stare con la moglie, viaggiando in treno di notte, momento di grande ispirazione come nel primo sonetto della raccolta Il passaggio d’Enea, intitolato Alba .

Carlo Bo, uno dei suoi primi critici, lo definì il “Poeta del sole, della luce e del mare”. I temi portanti della sua poetica soncome già accennavamo : la madre, rievocata e ricordata in molte poesie; Genova, considerata la sua “città dell’anima”; il viaggio, un viaggio allegorico alla scoperta della vita.

Il suo curriculum di traduttore vantò imprese di straordinaria importanza: il Tempo ritrovato di Marcel Proust, su incarico di Natalia Ginzburg (Torino 1951), Poesie e prosa di René Char (Milano 1962) poeta aristocratico e concettuale, di rocambolesca difficoltà, che Caproni sarebbe andato a visitare nel suo rifugio all’Isle-sur-la-Sorgue soltanto nel 1986. Altri titoli memorabili furono La mano mozza di Blaise Cendrars (Milano 1967), Il silenzio di Genova e altre poesie di André Frénaud (Torino 1967) che lo aveva aiutato nell’ardimentosa traduzione di Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline (Milano 1964).

A quattro mani con Rodolfo Wilcock voltò in italiano Tutto il teatro di Jean Genet (Milano 1971) e nello stesso anno Rizzoli pubblicò le sue traduzioni dalla raccolta Non c’è paradiso di Frénaud che gli valsero nel 1973 il Premio Città di Monselice. Varie altre versioni da poeti francesi e spagnoli del Novecento sono state poi raccolte in un Quaderno di traduzioni postumo (1998).
Numerosi i premi e i prestigiosi riconoscimenti. Con Stanze della funicolare vinse il premio Viareggio.

Assieme a Montale, vincitore con La bufera e altro del premio principale e più cospicuo, Il passaggio d’Enea si aggiudicò il premio selezione Marzotto.

Con Il seme del piangere (Milano 1959) tornò a vincere per la seconda volta il Viareggio e con il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (ibid. 1965) il premio Chianciano.

Nel 1982, in occasione dei suoi settant’anni, gli venne attribuito il premio Librex Eugenio Montale per la poesia e il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei.

Le sue opere : “Poesie 1932-1986, Milano 1989; Frammenti di un diario (1948-1949), a cura di F. Nicolao, con una nota di R. Debenedetti, introd. di L. Surdich, Genova 1995; La scatola nera, prefaz. di G. Raboni, Milano 1996; L’Opera in versi, ed. critica a cura di L. Zuliani, prefaz. di P.V. Mengaldo, cronologia e bibliografia a cura di A. Dei, ibid. 1998; Quaderno di traduzioni, a cura di E. Testa, prefaz. di P.V. Mengaldo, Torino 1998; «Era così bello parlare»: conversazioni radiofoniche con G. C., prefaz. di L. Surdich, Genova 2004; G. Caproni – C. Betocchi, Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986, a cura di D. Santero, prefaz. di G. Ficara, Lucca 2007; Racconti scritti per forza, a cura di A. Dei e con la collab. di M. Baldini, Milano 2008.”

Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.
(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.

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