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Sabrina Prioli, dall’inferno del Sud Sudan alla rinascita della Fenice: non lasciatemi sola

"Ero sola in quel bagno del compound a Giuba e mi hanno lasciata sola anche dopo, aiutatemi ad avere giustizia". L'appello di Sabrina Prioli, cooperante aquilana vittima di violenze in Sud Sudan.

“Ero sola in quel bagno del compound a Giuba e mi hanno lasciata sola anche dopo, aiutatemi ad avere giustizia”. L’appello di Sabrina Prioli, cooperante aquilana vittima di violenze in Sud Sudan.

Violentata per 5 volte, picchiata, soffocata con il DDT e lasciata a morire nel bagno di un compound. Sabrina Prioli, però, si è rialzata. Da sola, come sola sta portando avanti la battaglia per ottenere giustizia per quei giorni d’inferno, ma non basta: “Senza un appoggio diplomatico non si può fare nulla, per questo ho bisogno dell’aiuto di tutti, affinché l’opinione pubblica riesca a smuovere quei meccanismi che finora sono rimasti silenti. Mi rivolgo anche alla mia gente, agli aquilani: siamo forti, abbiamo affrontato prove dure come il terremoto senza trascurare le mobilitazioni, quando ce n’era bisogno, come nel caso di Giulio Regeni. Adesso c’è un’aquilana, ancora viva, che ha bisogno di aiuto”. Ma chi è Sabrina Prioli e che ci faceva a Giuba nel 2016?

Sabrina Prioli, al fianco delle donne e dei bambini.

Sabrina Prioli è una donna che è nata a L’Aquila, dove ha studiato e vissuto. La “voglia di aiutare” nell’ambito del sociale l’ha spinta prima a laurearsi in Sociologia a Roma e poi a specializzarsi in Metodologia e Tecnica della Ricerca Sociale; quindi il master in Cooperazione internazionale per la valutazione e il monitoraggio dei progetti.

Dai primi incarichi, l’interesse di Sabrina Prioli è rivolto alle donne, alle fragilità sociali dei quartieri problematici, da Roma alle realtà più pericolose, dal Kenya alla Colombia, anche in scenari di guerra: “Chi lavora in questo ambito – sottolinea Sabrina a IlCapoluogo.it – non va allo sbaraglio. Spesso c’è una narrazione distorta del nostro lavoro, ma io, come le mie colleghe e i miei colleghi, mi sono sempre mossa con estrema prudenza, in contesti comunque protetti e senza azzardi, anche quando ho lavorato con i bambini soldato, costretti a uccidere perfino i propri genitori a causa delle manipolazioni subite. In quei contesti così difficili, vedendo che anche quei bambini che avevano vissuto quel tipo di violenza potevano uscirne, ho capito l’importanza di queste cooperazioni”.

Sabrina Prioli, la missione in Sud Sudan

Corsi di sicurezza, protezione internazionale. Ma allora perché la missione in Sud Sudan si è trasformata in un inferno? Sabrina era stata chiamata per una consulenza sulla pacificazione in Sud Sudan dall’agenzia americana USAID e si è trovata in mezzo alla “guerra civile lampo” durata appena 7 giorni, sufficienti però a segnare per sempre la vita di Sabrina. “C’è stato un grande difetto di comunicazione tra intelligence. Il giorno prima dello scoppio della guerra un’auto blindata dell’ambasciata americana è stata crivellata di colpi per non essersi fermata a un posto di controllo. Eppure ci hanno lasciato lì, nonostante avessi chiesto di essere trasferita in un hotel vicino all’aeroporto, perché il nostro compound era troppo isolato e la tensione ormai era evidente. Ma ci hanno lasciati lì, perché era un compound che aveva la certificazione di sicurezza delle Nazioni Unite. Eppure il 4° giorno di guerra, i soldati sono entrati nel nostro compound.

Sabrina Prioli e l’inferno di Giuba.

I cooperanti si erano rifugiati nell’unico edificio blindato, mentre i soldati facevano razzia, dopo aver fatto irruzione. A tradirli, una sbarra rotta di una finestra: “Era un compound certificato, eppure sono entrati da una finestra nell’unico edificio blindato”. In quel momento l’incubo è diventato un inferno: “Sono stata violentata per cinque volte, sono stata duramente percossa e ho visto uccidere davanti a me un giornalista sudanese. Mi hanno spruzzato in faccia il DDT, cercando di aprimi la bocca per spruzzarmelo in gola e così soffocarmi. Poi i soldati sono stati richiamati da qualcuno e mi hanno lasciato lì, a morire soffocata in quel bagno, se non fosse stato per una collega che era con me, anche lei violentata e percossa, che mi ha aiutato a respirare”.

Il giorno della liberazione, non fu per tutti: “Io e la mia collega siamo rimaste lì per 24 ore, dopo che gli altri erano stati liberati. Tutti sapevano che eravamo lì, era stato anche dichiarato il ‘cessate il fuoco’, ma nessuno è venuto a prenderci. Alla fine ho trovato un telefono e sono riuscita a chiamare l’addetto alla nostra sicurezza che ci ha perfino chiesto dove fossimo. Mi sono alzata da sola dal pavimento di quel bagno e da sola ho dovuto combattere per avere giustizia”.

Sabrina Prioli e il processo beffa.

Per quell’inferno, alcuni soldati sono stati condannati. A tutti i cooperanti è stato riconosciuto un risarcimento “forfettario” di 4mila dollari: “Che siano stati subito liberati o che abbiano subito violenze di ogni genere, come successo a me, quello è stato il ‘prezzo’ dell’inferno di Giuba. E non posso nemmeno fare ricorso, perché la Corte Militare del Sud Sudan sostiene che è andato perso il file del mio processo, che ho voluto e portato avanti con tutte le forze, anche tornando sul posto per le testimonianze. È evidente che senza un forte impulso da parte della diplomazia ho le mani legate. Per questo ho chiesto aiuto ai giornali, per smuovere l’opinione pubblica e le istituzioni: non lasciatemi ancora sola”.

sabrina prioli

Sabrina Prioli e la Fenice.

Nell’inferno di Giuba la Fenice di Sabrina è bruciata e rinata, ma inevitabilmente diversa, come racconta nel suo libro, Il Viaggio della Fenice: “Quell’esperienza mi ha segnato, adesso c’è un’altra Sabrina. È cambiato anche il mio modo di lavorare, ma non l’obiettivo per il quale lo facevo: aiutare. Attualmente sono in Zambia, aiuto le donne vittime di violenza sessuale, un problema purtroppo molto sentito in Africa. Continuo ad essere al loro fianco. Per quanto mi riguarda, voglio solo riprendermi la dignità, attraverso la giustizia. Il Governo e le istituzioni devono muoversi per fare pressioni sul Sud Sudan, affinché possa proseguire la mia battaglia. Sono rimasta sola a subire le violenze in quel bagno, mi sono rialzata da sola, come da sola ho combattuto la mia battaglia per far condannare quei soldati. Ma adesso non posso andare avanti, ancora da sola. Aiutatemi”.

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