Tradizoni abruzzesi

Festa Sant’Antonio, il Covid spegne i fuochi ma non la tradizione

Niente fuochi di Sant'Antonio e festeggiamenti a causa della pandemia. Non ci saranno i canti della tradizione, i "lullitte e faciule" o le cottore. Il ricordo di una delle feste più antiche e sentite dell'inverno nell'Aquilano.

Sant’Antonio Abate: niente fuochi e festeggiamenti quest’anno a causa della pandemia.

La festa in onore di Sant’Antonio Abate è un rito che si è sempre rinnovata ogni anno il 17 gennaio e la cui origine, persa ormai nella notte dei tempi, affonda le sue radici tra il sacro e il pagano.

alfedena fuoco

Purtroppo, ovviamente, non sarà possibile ritrovarsi intorno al fuoco proprio per evitare assembramenti e contatti che potrebbero causare un aumento dei contagi.

In tanti piccoli borghi dell’Aquilano montano, i fuochi di Sant’Antonio non sono una semplice festa, ma un rito che si rinnova ogni volta, una sorta di buon auspicio per l’anno iniziato da poco.

Infatti, per non perdere del tutto la tradizione, ad Alfedena per esempio, piccolo paese incastonato nel cuore del Parco nazionale d’Abruzzo, verrà acceso un solo fuoco simbolico, monitorato, con la speranza che aiuti a “scacciare” la pandemia.

Prima della pandemia, intorno ai fuochi benedetti in onore di Sant’Antonio Abate si celebrava tanta allegria, musica, vino e gastronomia per una tradizione che ha sempre infiammato letteralmente l’inverno.

Il culto del santo egiziano, protettore degli animali, è molto legato alla tradizione contadina in questi piccoli borghi.

Un rito religioso che presenta dei tratti pagani, legato a un periodo dell’anno dedicato da sempre al culto della famiglia e al riposo dal lavoro contadino, che prima si passava davanti al fuoco di un camino o di una stufetta, di quelle economiche e smaltate di bianco.

Un atto di devozione con cui la popolazione affidava la custodia e la protezione di quanto avevano di più prezioso: la perdita di quegli animali, infatti, avrebbe potuto comportare per quelle economie fondate sulla sussistenza la rovina, il rischio concreto di andare incontro a lunghi periodi di stenti.

La festa di Sant’Antonio in tanti paesi abruzzesi è legata anche all’uccisione del maiale, un altro vero e proprio rito al quale partecipano amici e parenti che collaborano nel pesante e duro lavoro.

Ru foc‘ o le farchie, a seconda del dialetto, riuniscono gruppi familiari, amici, grandi e piccini, si raccontano storie, si beve, si mangia tutti insieme. Ognuno porta qualcosa, quello che si ha in casa e si sta in compagnia.

Ma chi era questo Santo, chiamato in molte località lu varvùte (il barbuto)?

Antonio era un eremita nato a Koma in Egitto nel 251 e morto in un convento nei pressi del Mar Rosso nel 356. Di lui si ha una biografia redatta da un monaco dello stesso Convento, Atanasio, nella quale Sant’Antonio tutto appare fuorché protettore degli animali domestici, considerati dal Santo eremita creature del demonio che inducono in tentazione gli eremiti.

Sant’Antonio diventa una specie di Signore degli animali in base ad un episodio agiografico che può essere così riassunto. Alla fine dell’XI secolo le reliquie del Santo erano state trasferite in Francia nella diocesi di Vienne (e precisamente in una cittadina che ancora oggi si chiama Bourg Saint’Antoine) da un nobile pellegrino, Gastone.

Nel 1297 nacque l’ordine questuante degli Antoniani, il quale richiamandosi alla regola di Sant’Agostino si diffuse in seguito per tutta l’Europa. Una singolare specializzazione terapeutica degli Antoniani era quella di curare l’ergotismo cancrenoso, detto “ignis sacer” o fuoco di Sant’Antonio, mediante il grasso di maiale misto ad alcune erbe.

Questa terribile malattia, che “divorava come il fuoco” soprattutto gli arti inferiori, destinati perciò spesso all’amputazione, era causata da un fungo che si sviluppava nella farina di segale cornuta, largamente impiegata nel basso medioevo dai ceti rurali ed indigenti per confezionare il loro pane quotidiano

Sicché le comunità rurali provvedevano ad allevare i maiali, fornendo agli Antoniani il prezioso grasso con cui i frati curavano l’ergotismo, all’epoca epidemico.

Cominciano così a diffondersi le prime immagini che raffigurano sant’Antonio con un porcellino ai suoi piedi e che, ancora nel XVII secolo, creavano non lieve imbarazzo ai teologi della chiesa di Roma, i quali non riuscivano a spiegarne i motivi.

Uno dei paesi in cui il culto di Sant’Antonio non ha perso il suo antico smalto è Collelongo, nell’Aquilano.

Le prime attestazioni storiche relative al culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo risalgono allo scorcio del 1600, periodo in cui verosimilmente venne eretto l’Altare dedicato al Santo nella chiesa di Santa Maria Nuova.

A partire dalla prima metà del XVII secolo iniziarono a comparire le registrazioni dei nati, dei morti e dei matrimoni dell’arcipretura di Santa Maria Nuova, Chiesa Parrocchiale del paese. Nel Liber Mortuorum si fa esplicita menzione della prassi di seppellire nelle pile cimiteriali poste al di sotto del piano pavimentale della Chiesa.

In un documento del 1640, l’arciprete registrava una sepoltura sotto il pilastro di Sant’Antonio. Con molta probabilità il pilastro menzionato è relativo all’altare su cui è eretta la statua lapidea del Santo. Sul piedistallo di questa si conserva ancora oggi l’incisione di un restauro avvenuto in occasione della visita del Vescovo Corradini nel 1692.

La festa si è sempre svolta nelle Cuttore. Il termine deriva dalla grossa pentola dove si mette a cuocere il granturco che, dopo sei/sette ore di bollitura, diventa “i ceceròcche” (dal latino cicercrocus, cece rosso). Identifica il focolare che, al rintocco delle campane dei vespri del giorno 16, con la recita delle litanie – classica orazione di carattere apotropaico volta ad ingraziarsi la benevolenza del Santo – viene acceso con legna di ginepro.

Ma la “cuttora” è più in generale il locale dove si svolge la festa per l’intera notte, si ospitano i pellegrini e le bande di suonatori che girano tutta la notte intonando i versi della classica canzone. La “cuttora” viene allestita all’interno di abitazioni private ubicate in diverse contrade del paese.

Alcune di queste sono residenze storiche delle famiglie più altolocate, altre sono abitazioni caratteristiche del paese ricavate dal banco roccioso; molte sono invece modeste abitazioni che vengono riqualificate e spesso restaurate per l’occasione.

La “cuttora” era prerogativa, un tempo, del patriarca di una famiglia che invitava a parteciparvi i parenti più prossimi, i quali contribuivano con “coppe” di granturco, vino, farina o salsicce. La festa dentro la “cuttora” proseguiva per tutta la notte ed era anche il momento in cui venivano pianificate la semina e le altre attività agresti della famiglia.

Alla presenza del Santo erano vietate liti e, pertanto, il momento era propizio per arrivare ad accordi. Nella “cuttora” erano ben accetti i viandanti o i pellegrini ai quali veniva offerto ciò che la “cuttora” aveva, ovvero la “panetta”, qualche ciambella, un bicchiere di vino e, soprattutto i “cicerocche” conditi grossolanamente con un po’ di lardo (chi se lo poteva permettere). I “cicerocche” la mattina venivano poi offerti fuori la chiesa come cibo sacrale per gli animali.

Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, “torcioni”, “farchie”, “focarazzi”, “ceppi” o “falò di S. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera.

Il “torcione”, caratteristica unica di Collelongo, una volta era ricavato da un unico esemplare di quercia che abili maestri d’ascia provvedevano a lavorare fino a dargli la caratteristica forma.

Questo successivamente veniva “inzeppato” con “stangoni” ed altra legna ed infine issato nelle piazze principali del paese. Particolarmente suggestivo era “I favòre”, falò che i pastori accendevano in località S. Antonio. Da questo punto è possibile vedere sia il paese che gli stazzi di Amplero e la tradizione vuole che al più vecchio ed al più giovane tra i pastori che tornavano dagli stazzi a far festa fosse dato l’onore di accendere il “favòre”.

Menzione meritano le “torcette”, le particolari torce che i bambini di Collelongo utilizzano nella processione del 16 sera. A differenza delle normali torce che si usano altrove, quelle di Collelongo sono realizzate “torcendo”, ovvero avvolgendo su se stesso (da qui il nome) un virgulto di roverella, cerro o carpine.

Questa operazione sfibra il legno permettendo alle abili mani del torcettaro di ricavarne un prodotto unico per la gioia dei tanti bambini, i nuovi devoti alla festa di Sant’Antonio Abate.

 

Una festa antica in onore di Sant’Antonio che si rinnova anche ad Alfedena; in ogni casa, le nonnine di una volta avevano almeno un’immaginetta del santo, sormontata da un piccolo ramoscello di ulivo che veniva benedetta dal parroco del paese.

Per più di mezzo secolo c’è stato don Camillo Lombardi, oggi scomparso, devoto al santo e alla tradizione della festa.

A tenere viva la tradizione, ci sono tutti o quasi i giovani del paese che già da giorni prima accatastano “le lena” per preparare i tanti fuochi che verranno accesi in vari punti del piccolo borgo.

Quest’anno, a causa della pandemia, dovrà rinunciare al rito, Crispino Crispi, fino alla pensione titolare di uno storico alimentari nel paese, molto legato a un fuoco in particolare: quello della via Canapina, la strada dove abitava con i genitori Giovanni e Ida, molto conosciuti in paese e che oggi non ci sono più.

Proprio ad Alfedena, nel 1990, durante una delle feste in onore del Santo, cominciò a circolare l’idea di raccogliere tutte le canzoni del paese. Un lavoro certosino, portato avanti da Crispino insieme alla sorella. Da lì la nascita del coro “Senza pretese” composto da circa 30 ragazzi del paese, che due anni dopo fece anche un piccolo concerto in piazza.

“Fuochista da sempre”, così si definisce, ha cominciato questa attività nel 1966, quando la via Canapina era abitata da tanti personaggi che hanno fatto la storia del paese.

Ognuno, la sera di Sant’Antonio, portava quello che aveva: due patate da cuocere alla brace, il pane fatto in casa, un po’ di vino e, tra stornelli improvvisati, si ripercorrevano le storie e gli episodi legati a tanti personaggi che hanno caratterizzato il paese; e per chi ne ha ancora memoria anche la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che colpì molto queste zone che si trovavano lungo la linea Gustav e sotto lo scacco dei bombardamenti.

Sulle tavole improvvisate non poteva mancare la panonta, le “lullitte e faciule”, le tanto amate “ciceranate”, che altro non è che granturco bollito nelle cottore e servito nei cartocci, ai tanti che hanno prima partecipato alla processione.

Quest’anno non ci sarà tutto questo, ma è solo un appuntamento rimandato: appena la pandemia sarà lasciata alle spalle, si tornerà anche a onorare e festeggiare Sant’Antonio. 

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