Economia

Mario Draghi, ricette di buon senso inascoltate a Roma come in Abruzzo

Mario Draghi e il discorso di Rimini. L'analisi dell'economista Piero Carducci.

Il discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini. Il contributo dell’economista Piero Carducci.

Dopo il discorso al meeting di Rimini tutti parlano di Mario Draghi come nuovo salvatore della Patria. Eppure Draghi ha detto soltanto cose di buon senso, argomentazioni che come studente universitario degli anni ’80 potevo ascoltare tutti i giorni nelle aule di Economia a Roma, esposte da docenti del calibro di Federico Caffè e Sergio Steve. Un discorso di semplice buon senso che 40 anni fa non sarebbe certamente passato alla storia e non avrebbe fatto parlare i giornali per un mese prefigurando prestigiose carriere politiche per chi lo avesse pronunciato.

Il fatto è che il buonsenso oggi è rivoluzionario. A questo siamo ridotti dopo aver distrutto la politica monetaria con l’adesione al “Trattato di Maastricht”, o patto della stupidità, che ha trasformato la nobile scienza economica in mera ragioneria dell’Euro. Ci sono voluti trenta anni per capire che i vari parametri europei sono, con la loro rigidità che impedisce politiche anticicliche, un clamoroso errore. Draghi lo ha ricordato e insieme ha rilanciato le regole dell’economia keynesiana che possono aiutarci ad uscire dal fosso della virus-recessione, se però tradotte in coerenti politiche economiche. L’Europa è il fanalino di coda della crescita mondiale perché il rispetto dei famosi indici deficit/PIL e degli “zero-virgola” ha costretto a tagliare la spesa pubblica anche in capitale umano, nelle infrastrutture, nella ricerca, nella sanità e negli altri impieghi produttivi. Se gli investimenti produttivi generano debito, ha detto Draghi, questo è “debito buono”, perché incrementa il prodotto nazionale, crea reddito ed occupazione. Cattivo è invece il debito improduttivo, quando le risorse pubbliche vengono utilizzate per fini clientelari, finanziamenti a pioggia, regalie a consorterie familistiche ed amorali.

Ma qualcuno ha ascoltato Draghi, che ha detto le stesse cose sei mesi orsono? Non ci pare che sia stato ascoltato, né a Roma, né in Abruzzo, né altrove. Se lo avessero ascoltato, la prima manovra di politica avrebbe dovuto riguardare l’accelerazione degli investimenti in opere pubbliche, un potente moltiplicatore del prodotto. Ma non si è fatto. Lo stesso dicasi per l’accelerazione della spesa sui fondi europei, dove in particolare l’Abruzzo occupa l’ultima posizione insieme alle Marche causa inadeguata assistenza tecnica. Ma non si è fatto neppure questo.

Non bisognava inventarsi nulla di strano, non servivano decreti e task force di esperti, sarebbe bastato accelerare al massimo la spesa; pigiando in tal modo sul pedale della spesa produttiva, la Regione avrebbe potuto dare un segnale forte di inversione di rotta, creare ricchezza e nuovi posti di lavoro, dare fiducia in un momento di accentuata difficoltà ed incertezza sulle prospettive future.

Oltre a sbloccare i cantieri, migliorare il tiraggio sui fondi europei e spendere le notevoli risorse regionali per cassa, si sarebbero dovute meglio informare le imprese ed assisterle nelle opportunità in essere; supportare i comuni nella progettazione e nel cofinanziamento dei bandi di varia fonte; avviare un fondo sovrano per ricapitalizzare le imprese in crisi di liquidità e trasformare i debiti in capitale di rischio. E ancora far crescere la domanda aggregata aiutando le imprese ad aumentare l’export verso nuovi mercati del far east, soprattutto Cina, infine accelerare la crescita delle filiere in controtendenza, come agroalimentare e farmaceutica. E non si è fatto neppure questo. E poi, invece di impegnare buone risorse in dubbi progetti di marketing territoriale, occorreva invitare con campagne mirate le famiglie a comprare prodotti abruzzesi ed italiani.

Si può ancora recuperare e ritrovare la retta via, illuminata da vision strategica e lastricata di capacità tecnica. Si potrebbe…

(foto Forbes Italia)

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