Da mestre a l'aquila

Coronavirus: la storia di Fabiola, infermiera aquilana in prima linea a Mestre

Fabiola, aquilana, ha 26 anni e da sei mesi non vedeva la sua famiglia. Quattro mesi in prima linea a Mestre per combattere contro il Covid. "Lì dentro pesavo anche i respiri che facevo"

Fabiola, aquilana, ha 26 anni e da sei mesi non vedeva la sua famiglia. Quattro mesi in prima linea a Mestre per combattere contro il Covid. La sua storia

È Fabiola stessa che racconta al Capoluogo, con una lunga lettera, questi mesi di emergenza e professionalità, di paure e speranze. Con un lieto fine: i suoi affetti da riabbracciare dopo sei mesi.

Infermiera Fabiola coronavirus

Sono Fabiola, 26 anni, nata a L’Aquila, una delle tante infermiere impegnate nell’emergenza Covid a Mestre, Venezia! Ed oggi, dopo 6 mesi, posso finalmente riabbracciare la mia famiglia!
Sono qui a scrivere, per rendervi partecipi della mia personale esperienza, in prima linea nel reparto covid, ma soprattutto lontano dalla mia famiglia.

Quel 17 marzo – era un martedì, il giorno prima del mio compleanno– una semplice telefonata, ci annunció che da lì a poco ci sarebbe stata una riunione. Quella riunione ha avuto il potere di segnare un prima e un dopo nelle nostre vite, catapultandoci in una dimensione parallela terribile, una realtà sanitaria tragica, inimmaginata e inimmaginabile. E così abbiamo fatto quello che ci è stato chiesto di fare. In poche ore abbiamo trasformato un reparto, riorganizzato!

Non abbiamo battuto ciglio e abbiamo indossato tute, mascherine, guanti, soprascarpe, scafandro. Senza sapere bene cosa stavamo facendo. Senza sapere che sarebbero diventati la nostra seconda pelle.

Abbiamo iniziato così la nostra avventura, con le tute addosso per ore ed ora, senza poter andare neanche in bagno, con le mascherine una sopra l’altra, doppi guanti, tripli, quadrupli , con la bocca sempre impastata, non si poteva né bere né mangiare, con la fatica e il sudore che non potevi neanche asciugarti.

Mentre tutto scorreva, pazienti arrivavano, chiudevano prima la Lombardia, poi le altre regioni. Il mio pensiero era fisso lì, alla mia famiglia, a 600km di distanza e a quando avrei potuto riabbracciarli. Abbiamo lottato tanto, contro qualcosa di nuovo, e sconosciuto, la paura di essere contagiati è stata altissima, e lo ammetto, più volte ho avuto paura di morire! Fisso in testa avevo il pensiero che se fossi stata contagiata non avrei più rivisto la mia famiglia!

Se fuori il silenzio della nuova quotidianità era triste e surreale, dentro era un inferno fatto di dolore, fatica, lacrime, senso di inadeguatezza.

Noi infermieri giravamo da una stanza all’altra come trottole impazzite, cercando di organizzare mentalmente ogni cosa prima di passare all’azione. Abbiamo imparato che ogni gesto deve essere calcolato in anticipo per evitare dispersioni di energia preziosa, dovevamo averne per dieci ore di fila, bisognava essere lucidi.

Sui volti dei pazienti c’era preoccupazione, paura. La stessa che sentivamo noi. Ci riconoscevano attraverso gli occhi! Si proprio così, un giorno un Signore, presentandomi nella sua stanza, mi ha accolto dicendomi, “Faby buongiorno, non posso sbagliarmi guardando i tuoi occhi, occhi meravigliosi che solo con uno sguardo mostrano il tuo sorriso”.

Ma il pensiero lì dentro, va ben oltre, a chi hai a casa, a mamma, papà, mia sorella, i nonni! Senza telefono, senza sentirli, isolata dal mondo!

Mai avrei pensato neanche minimamente a quanti decessi avrei visto, le bare…

Un giorno, arrivai in Ospedale, pronta per fare la notte, e il mio Caposala mi consegnó un sacco enorme…blu! Proprio così! Mi disse che sarebbe servito in caso di un decesso! Non dimenticherò mai quelle immagini! Mai avrei immaginato di mettere lì dentro, corpi.

Alla fine del turno ti toglievi l’armatura ,facendo attenzione a ciò che facevi, perché ogni minimo passaggio che facevi poteva contaminarti.

Sei fuori e finalmente respiri. Perché lì dentro, pesavo anche i respiri che facevo.

Salivo in macchina.. Ma prima di mettere in moto per tornare alla mia vita, mi fermavo, solo un momento, per lasciare che la tensione mi attraversasse. E lì, immancabilmente, realizzavo di avere paura. Sì, la fine del turno era quando potevo ammettere di avere paura. La prima chiamata che facevo era a Gabriele, per dire che stavo tornando a casa, e poi finalmente chiamavo la mia famiglia, minuti e minuti a telefono, anche se i minuti non azzeravano i km che ci dividevamo, ma una loro semplice parola bastava a tranquillizzarmi!

Una volta a casa mi facevo una doccia bollente per lavare via lo sporco, la fatica, le lacrime.

Ad aspettarmi c’era lui, Gabriele , proprio così: ad Agosto ci dovevamo sposare, ma abbiamo dovuto rimandare! Eri lì, mi guardavi, avevo i solchi sul viso, con gli occhi lucidi e con lo sguardo velato da un’ ombra ineffabile, ma tu mi ascoltavi! Io, con un filo di voce, mi guardavi, con lo stesso sguardo che io da bambina guardavo i miei nonni quando mi raccontavano della guerra! Anche questa, a ben guardare, è stata una guerra, una guerra contro un nemico invisibile.

Dovevo far fronte alla mia vita, a proteggere me stessa.

I mesi della quarantena per me sono quasi volati in questo “uragano” , le poche ore di distacco, tra un turno e l’altro, cadevo in un coma profondo!

Man mano, i pazienti sono andati scemando, e poi il 3 Giugno, la parola “ casa/ famiglia “ era qualcosa di possibile!

Ed ora, a distanza di 6 mesi, sto tornando a L’Aquila: non mi sembra vero, posso finalmente riabbracciare tutti i miei cari.

Credo che in 26 anni, già ho affrontato fin troppe battaglia, il terremoto a L’Aquila e ora il Covid! Tra una disgrazia e l’altra però non ho mai smesso di ringraziare Dio per avermi donato la salute, sempre, a me e tutti i miei cari. E spero solo che da questo momento in poi, la vita mi riservi solo cose belle!

Colgo l’occasione per ringraziare i miei coordinatori , che mi hanno regalato ogni giorno, nonostante il periodo che stavamo affrontando, la voglia e la forza di affrontare le giornate! I miei colleghi, una equipe meravigliosa, mi ha dato l’opportunità di confrontarmi e lavorare con colleghi speciali, attimi, intensi, vissuti tra sorrisi, lacrime, urgenze, in particolar modo Giulia, compagna di avventura e soprattutto la mia spalla destra! Person, che porteró sempre nel cuore! I miei genitori che hanno sempre creduto in me, e tra poche ore potrò riabbracciare, i miei nonni, mia sorella, che con le sue mille preoccupazioni mi ha sempre sostenuto, e poi Gabriele perché senza te non sarei qui ora, quante volte ti ho detto che non ce la facevo, e tu mi davi 1000 motivi per lottare.

Grazie

Fabiola