Cultura

Camminare senza scarpe, il libro di Carlo Marchi presentato in quarantena

Il libro di Carlo Marchi, "Camminare senza scarpe". La presentazione.

Carlo Marchi e il suo libro Camminare senza scarpe. La presentatazione in quarantena.

Parla di unione e solidarietà l’ultima pubblicazione dello scrittore aquilano Carlo Marchi che nel libro Camminare senza scarpe, edito da Tabula fati, ripercorre la propria giovinezza nel rione di Trastevere. Tramite lo sguardo del protagonista l’autore descrive scene di vita tratte da un contesto difficile, quello del dopoguerra, in cui i cittadini si aiutavano l’un l’altro per ricominciare a vivere mostrando una generosità tutta popolare che non lasciava spazio a discriminazioni.

Originario di Roma Carlo Marchi ha alle spalle una lunga carriera di penitenziarista e docente universitario presso l’Ateneo dell’Aquila, all’attività di studioso ha sempre affiancato quella di autore di opere narrative. All’attivo ha già nove romanzi tra cui Pescatori di orme che gli è valso il primo posto nella VI edizione del Premio per l’editoria abruzzese. Dotato di una profonda sensibilità ed empatia non fa mistero di affidare i propri pensieri e le proprie esperienze di vita ai personaggi dei suoi romanzi, nel caso di Camminare senza scarpe è Aurelio ad esporre al lettore i ricordi che Carlo ha accumulato negli anni della giovinezza trascorsi tra Trastevere ed il Ghetto. Purtroppo la quarantena impedisce all’autore di poter presentare il libro in un incontro pubblico ma ciò non ha impedito a IlCapoluogo.it di raggiungerlo telefonicamente per parlare della sua decima pubblicazione.

Carlo Marchi, lei è noto per dare molto spazio nelle sue storie alla componente intima e sentimentale, è così anche per Camminare senza Scarpe?

Parlarne per telefono è riduttivo per me che sono abituato ad incontrare le persone, a guadarle negli occhi, comunque la risposta è si, ma a differenza di quanto accade in Pescatori di Orme, che è incentrato sulla ricerca degli affetti, in Camminare Senza Scarpe fornisco uno spaccato di vita del rione di Trastevere a Roma, dove sono nato e cresciuto. I ricordi che ne ho li racconterà Aurelio, il protagonista del romanzo, che, ormai vecchio, torna dopo tanti anni nel rione in cui ha vissuto.

carlo marchi

Qual è il motivo conduttore della storia?

La solidarietà, voglio illustrare come un tempo si potesse vivere in solidarietà nonostante le ristrettezze, come in un tessuto sociale composto sostanzialmente da persone poco abbienti non fosse negato a nessuno un piatto di minestra o una parola amichevole.

Una solidarietà dettata dalla comune condizione di povertà.

Una grande povertà, le scene che illustro nel libro sono autentiche perchè tratte dal mio vissuto e mostrano come in anni difficili come quelli del dopoguerra i ceti popolari abbiano saputo trovare la forza di andare avanti nell’unione e nell’aiuto reciproco. Sembra strano ma posso assicurare che è proprio presso contesti dove regna la povertà che si possono ritrovare i buoni sentimenti e la solidarietà disinteressata. In contesti agiati, invece, è più facile che siano coltivati invidia, astio e ipocrisia.

Secondo lei perché?

Perché la povertà è terribilmente democratica e ti insegna a dare il giusto valore alle cose, a cose materiali ed immateriali. Quando non hai modo di essere avaro è difficile anche essere discriminante, a quel punto poco ti importa del colore della pelle dell’altro o della lingua che parla. Sono una persona che viene dal basso, pensi che ho imparato a nuotare nel Tevere, e ricordo molto bene come le persone tra cui sono vissuto fossero sagge nella loro ignoranza. Può sembrare una contraddizione ma non lo è, c’è infatti un tipo di saggezza che viene tramandata di generazione in generazione senza l’ausilio di lezioni e professori ed è la sapienza popolare, accumulata nei secoli. Qualcosa di molto diverso dall’ignoranza grassa mista ad arroganza che si può riscontrare oggi. La morale stessa era molto diversa.

La povertà rende una società più inclusiva?

Pensi che a Trastevere trovarono rifugio disertori tedeschi che avevano rifiutato di servire i nazisti ed avevano trovato asilo presso la nostra comunità, stessa cosa accadde per molti ebrei, alcuni dei quali furono protetti da mia nonna che li nascose in cantina, in mezzo al carbone.

Un gran merito per la sua famiglia.

Mia nonna agì d’istinto, perché mai delle persone avrebbero dovuto morire? In un contesto in cui si dà un gran valore al bicchiere di vino bevuto insieme e con esso all’amicizia è difficile far credere che gente con cui si è stati a contatto per una vita, come gli ebrei del ghetto, improvvisamente siano diventati nemici, l’identità di rione rifiuta tutto ciò.

Quella trasteverina era un’identità forte?

Una delle feste più sentite di Roma è la festa di Noantri, che si tiene ogni anno nella seconda metà di luglio. Noantri significa noi in simbolica contrapposizione a tutti gli altri, faccia lei.

Aveva molti amici nel ghetto?

Casa mia era attaccata al ghetto i cui abitanti erano in gran parte miei amici. Noi li chiamavamo giudii e loro non si sono mai offesi perché il termine era entrato nel lessico comune perdendo qualsiasi connotato spregiativo. Ricordo che loro chiamavano me er nipote, in omaggio a mia nonna che aveva aiutato alcuni di loro. Non bisogna poi dimenticare l’ironia, una risorsa formidabile in contesti popolari, ricordo come in occasione delle olimpiadi di Roma nel 1960 si scherzava sulla vittoria dell’etiope Abebe Bikila nella maratona dicendo “Ha vinto il Negus” o “ha vinto Menelik”, ma non erano battute razziste.

Questa quarantena non le permetterà ancora per un po’ di incontrare i suoi lettori.

Purtroppo ho dovuto rimandare la presentazione, un rammarico a cui si è aggiunto il dolore per la perdita di mio fratello, scomparso il 18 febbraio, che avrebbe dovuto essere al mio fianco per parlare del libro. Poi è sopraggiunta questa pandemia che farà molto male all’anima delle persone.

Lei che è un conoscitore dei sentimenti e delle emozioni umane, come usciremo da tutto ciò?

Non poter abbracciare un amico, stringere la mano al vicino, passare del tempo con  i propri cari, addirittura perderli senza poterli salutare, provocherà un temporaneo inaridimento delle coscienze da cui sarà faticoso uscire. Quel che è peggio è che purtroppo non c’è una via alternativa per combattere questo nemico subdolo.

carlo marchi

Un estratto da libro Camminare senza scarpe di Carlo Marchi.

Era il 1960, le Olimpiadi di Roma.
……..

C’erano gli indiani dell’India, i giapponesi, quelli dell’Argentina che avevano tanti cognomi italiani e i negri dell’Africa.
Atleti che trovavi ovunque, perché si perdevano per i vicoli e perdevano anche i portafogli.
Aurelio si diceva che Roma era la città più sincera del mondo.
“I giudii so’ giudii e i negri so’ negri, che annamo a infrasca’ le parole pe’ falle diventà più gentili. Che ce rappresenta sta’ storia che so’ de colore, perché noi pure semo de colore, un po’ sbiaditi ma sempre de colore semo,” dicevano i vecchi del rione. I ragazzini vivevano quella pagina di Storia attraverso qualche immagine rubata dalla televisione o i racconti di chi poteva andare allo stadio Olimpico.

…….

Nelle gare gli italiani vincevano e tutti si infervoravano. Poi c’era stato il momento della maratona, la storia più bella di tutta l’Olimpiade.
In tanti l’avevano accompagnata lungo le strade di Roma antica. Era sera, la gente acclamava i maratoneti. Erano state abbassate le luci dei lampioni e accese le fiaccole per rendere l’atmosfera; gli atleti correvano e correvano. Davanti a tutti c’era un negro che andava a piedi scalzi.
Alto, filiforme, sulla maglietta c’era scritto “Etiopia”. Era arrivato come un imperatore sotto l’Arco di Costantino, da solo. Primo.
“Aho’, ha vinto er negro, ha vinto er Negus.”
Oppure, dai più anziani. “Ha vinto Menelik.”
Quel negro che correva a piedi scalzi si chiamava Abebe Bikila e ai romani era piaciuto subito. Gentile, educato, affettuoso, con quel nome, Abebe, che sapeva di musica, aveva conquistato i ragazzini, che avevano sogni simili a quell’avventura. Aveva vinto er negro, il diverso.
Ognuno di noi è diverso, la perfezione non esiste, ma esistiamo noi con la nostra diversità.
L’insegna dell’Antico caffè del Moro c’è sempre, vuol dire che ci sono tanti Abebe che vivono con noi.