Una storia per la festa della donna

Cara nonna ti scrivo, oggi è anche la tua festa

A quanti di noi la nonna non ha salvato la vita almeno una volta? Oggi, 8 marzo, è anche la sua festa. Auguri a tutte le nonne del mondo!

A quanti di noi la nonna non ha salvato la vita almeno una volta? Con una carezza, un abbraccio, con una parola di conforto.

Oggi, 8 marzo, è anche la sua festa…Auguri a tutte le donne, affinché possano avere non mille regali materiali, ma una nonna speciale al proprio fianco, come la mia.

 

“Mangia, a nonna, così sei troppo magra. Ti bastano due chili in più e sei ancora più bella”.

Questa è la storia, o almeno il ricordo, di mia nonna Assunta, per tutti e soprattutto per me ‘nonna Angelinella’. Era lei a ripetermi di mangiare, lo faceva puntualmente, ogni volta che la vedevo.

Mia nonna profumava di lavanda, di crema idratante e saponetta. E poi profumava di famiglia. Da lei ho passato ogni estate della mia infanzia. Da quando, con le codine a legarmi i capelli, mi prendeva per mano per la grande scalinata in marmo che portava alle camere, fino a quando ero io a prenderla sotto braccio per aiutarla a camminare. Perché: “queste ginocchia hanno fatto il loro tempo”.

Le estati con lei erano come una bella favola di campagna. Le passeggiate per le strade del paese, panzanella o pizza al pomodoro come spuntino del mattino, le chiacchiere in terrazza mentre stendevamo il bucato, le lacrime versate davanti a ogni signola puntata di ‘Terra Nostra’ e la sigla di Amedeo Minghi cantata quasi a squarciagola. Le ore alla finestra, in ansiosa attesa che tornasse dal lavoro il suo nipote più grande, i ciambelloni sfornati, gli scherzi con Ale, i gelati gustati in compagnia, le notti nel letto, una a fianco all’altra, sempre illuminate dall’abat-jour. Perché il buio non ci è mai piaciuto…Ancora oggi ne ho paura, nonna.

Mia nonna era una donna e di donne ne aveva messe al mondo altre cinque. Sei, per la precisione, ma il destino volle riprendersene una. Mia nonna era una mamma. Attenta, presente, generosa. Mia nonna era una nonna. Fiera, saggia, premurosa. Rimasta vedova troppo presto, di un marito che non ho mai conosciuto. Me ne parlava poco, ma quando lo faceva inziava sempre così: “quando io ero giovane, tuo nonno…” La giovinezza passata a lavorare nei campi, con la schiena piegata. Sotto il sole o la pioggia. La legna da portare a casa, per scaldare i fratellini, perché suo papà era partito per la guerra, direzione Africa del Nord. Anni senza sapere come fosse morto, laggiù. Fino al racconto di un compaesano, sopravvissuto e tornato a casa. “Un passo sbagliato, la mina scoppiata, il corpo in brandelli”. Era figlia di una vedova di guerra mia nonna. Appeso alla sala di casa sua un quadro, in foto un soldato bellissimo. Suo papà. Tra le rughe del suo volto tutte le pagine della sua lunga storia.

Anche gli inverni, nei fine settimana da lei, avevano un sapore speciale. Come il sugo delle sue polpette. Tre, quattro, cinque e poi la scarpetta. Non ho mai assaggiato un sugo più dolce. Il fuoco acceso fin dal mattino. Lo sentivo scoppiettare scendendo le scale, ancora in pigiama. Entravo in cucina e c’era lui ad attendermi, insieme alla tavola apparecchiata per la colazione e al sorriso di lei. Era impossibile avere freddo a casa di mia nonna. Neanche la sera. L’accappatoio caldo prima di ogni doccia, il pigiama bollente prima di mettermi a letto. Su e giù per quelle scale, nonostante la schiena e le ginocchia malandate, solo per farmi avere tutto caldo di caminetto. I proverbi e le tradizioni del suo tempo, la frase magica da pronunciare per essere protetta dai temporali e poi le storie, raccontate davanti a una tazza di cioccolata calda, appoggiata al suo bastone. Storie di un’infanzia troppo diversa dalla mia, troppo diversa per una bambina.

Mia nonna era stata solo una bambina, ma nel 1931. Era una bambina che aveva perso suo padre quando nel suo paese, Castronovo, arrivarono i tedeschi: perché la guerra non era ancora finita. L’occupazione dei soldati – nessuno bello come suo papà – la fuga nelle stalle in campagna, nascosti tutti insieme. Niente cibo, poca acqua. Sopra di loro il volo minaccioso di mezzi che incutevano terrore, la paura di bombe che potevano essere lanciate all’improvviso, apparecchi che facevano avanti e indietro, per fornire rifornimenti nei veri teatri del conflitto. I tedeschi non avvertivano e loro non avevano altra scelta che resistere. Resistere per sopravvivere.
Non fu una partigiana mia nonna: era poco più che un’adolescente quando conobbe realmente cosa fosse la guerra, senza essere su un vero campo di battaglia. Si salvò, assieme alla sua famiglia, ma ne pagò uno scotto tremendo. Giorni, mesi, anni senza mangiare, anche quando il cibo era tornato a riempire le dispense di casa sua. La paura aveva preso il posto della fame: quel terrore durò a lungo, fino a renderla l’ombra di se stessa. E non c’era nessuno che le sfornasse ciambelloni, o che la viziasse con sugo e polpette. Nessuno a dirle: “mangia, a nonna”.

Ho avuto mia nonna per 18 anni ed è stato il più bel dono che la vita potesse farmi. Poi il cielo ha deciso di riprenderla con sé: era il 12 gennaio di otto anni fa e fuori sarebbero presto caduti metri e metri di neve. Il 2012 era arrivato, portando con sé teorie catastrofiche da fine del mondo. So che quell’anno il mondo non è finito veramente, ma per me e 11 nipoti innamorati un pezzo di mondo era perso per sempre.

L’ultimo sguardo di mia nonna fu vuoto, non riusciva neanche più a riconoscermi. Da quel giorno con me c’è il suo ricordo. Un ricordo solo nostro, non sapevo neanche di volerlo raccontare. Poi ho pensato che è una bella storia, quella di mia nonna, la donna della mia vita. E meritava di essere raccontata.

Auguri a tutte le nonne

IlCapoluogo.it parlerà di donne tutte le domeniche. Storie, temi, riflessioni, affinché l’8 marzo sia tutto l’anno.

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