Economia

Abruzzo, la produttività in costante declino è una tendenza da invertire

L'analisi dell'economista Piero Carducci sul trend negativo della produttività in Abruzzo.

Il contributo dell’economista Piero Carducci sui problemi di produttività in Abruzzo.

Dal 2014 l’Abruzzo soffre di un costante calo della produttività, che è l’attitudine di un’organizzazione a conseguire un risultato superiore ai mezzi impiegati, e più specificamente è il rapporto tra il prodotto (output) e l’insieme dei fattori di produzione che hanno concorso a produrlo (input).  Ebbene, l’apparato produttivo regionale ha tenuto negli anni della grande crisi 2007-2014, con una flessione della redditività meno pronunciata rispetto alla media nazionale e pari alla metà del calo registrato nel Mezzogiorno,  ma negli anni successivi si registra un forte ritardo rispetto alla dinamica nazionale. Ciò suggerisce la presenza di fattori specifici, oltre a quelli comuni a tutta l’Italia, i quali  determinano un calo della produttività regionale, un evidente sintomo della patologia del declino.  La crescita della redditività è in effetti la fonte principale dello sviluppo economico, e se l’Abruzzo non scende ancora ai livelli della Calabria è grazie alla presenza di multinazionali esogene  che costituiscono isole felici di altissima efficienza in un sistema mediamente carente, seppur con le dovute eccezioni.

La decrescita della produttività – e coerentemente del Pil procapite –  dipende da vari fattori, alcuni specifici ed altri sistemici: sono specifici della Regione l’invecchiamento della popolazione e la stasi demografica, il saldo migratorio negativo soprattutto tra i giovani che lasciano la nostra terra per migliori prospettive e generalmente non tornano, il calo delle persone in età lavorativa. Sono fattori sistemici, che riguardano l’Italia ed anche l’Abruzzo,  la scarsa qualità delle risorse umane e dello stock di capitale impiegato nel ciclo produttivo, le insufficienti innovazioni di prodotto e di processo, le antiquate forme di organizzazione del lavoro, l’inefficienza dei servizi pubblici, l’arretratezza digitale. La bassa redditività del lavoro determina  un pari indebolimento della competitività;  la fuga dei giovani e dei talenti, inoltre, comporta una perdita secca di capitale umano e quindi mina la crescita di lungo periodo.  La minore produttività riguarda soprattutto le piccole e medie imprese (PMI):  una quota elevata di lavoratori risulta occupata in piccolissime imprese a basso valore aggiunto e quindi caratterizzate da minori rendimenti rispetto a settori ad elevata tecnologia, come ad es. la farmaceutica, l’automotive, la metalmeccanica di precisione, le manifatture elettroniche ed i servizi di telecomunicazioni.

L’Abruzzo deve invertire questo trend se non vuole patire una strutturale decrescita. Limitandoci alle politiche regionali, una criticità sulla quale si sta lavorando ma è ancora da risolvere è quella dell’accesso distorto al credito,  fattore rilevante di inefficiente appostazione delle risorse tra imprese. Le risorse scarse disponibili vanno indirizzate, anche con logiche premiali,  verso le imprese più dinamiche e profittevoli,  a prescidere dalle loro dimensioni. Un altro fattore sul quale intervenire è la migliore spesa delle risorse disponibili, soprattutto di fonte comunitaria, perseguendo l’efficienza allocativa, premiando le imprese che vogliano perseguire l’obiettivo esplicito della crescita del prodotto per persona attiva cogliendo le opportunità offerte dal progresso tecnologico.  Ciò che serve, soprattutto,  è l’aumento della capacità di “utilizzare” la tecnologia da parte del sistema delle PMI e della Pubblica Amministrazione, capacità legata alla migliore formazione degli imprenditori, dei dirigenti/quadri pubblici, dei lavoratori e all’acquisizione di competenze avanzate. Non bisogna spendere le risorse, bisogna investirle per creare benefici futuri, e sulla spesa in  formazione c’è molto da fare e da riformare.

Resta poi una questione di fondo, sul quale il vertice della Regione sta ragionando proprio in queste settimane: l’eccessiva frammentazione dei centri decisionali della politica industriale e quindi la connessa necessità di creare un soggetto unico che concentri le dispersive politiche industriali regionali.  La creazione di un’unica Agenzia di Sviluppo, attraverso un processo di fusione per incorporazione delle varie agenzie, è stato sperimentato con successo da varie regioni, come la Lombardia ed il Friuli Venezia Giulia, solo per citare alcuni casi rilevanti.  Le aree di intervento della nuova Agenzia di Sviluppo dovrebbero essere quelle classiche, ma ad oggi carenti,  del “private equity”  e di “holding”. Nel private equity, l’agenzia assumerebbe  partecipazioni non di controllo nel capitale di rischio di imprese che operano in regione, supportando piani di sviluppo e favorendo la continuità azionaria, garantendo un ritorno in termini di crescita e  valorizzazione di asset territoriali.  Nelle funzioni di “holding” l’agenzia  svolgerebbe il ruolo di  capogruppo di  società di interesse strategico regionale, alle quali fornire i tipici servizi di corporate.   Tra le funzioni importanti da sviluppare in questo ruolo devono rientrare la crescita delle relazioni di rete con istituzioni, Università, banche, investitori, associazioni dei produttori nonché i Comuni.  Una rete che faciliti il contatto con la Regione per accelerare le pratiche e sfruttare tutte le opportunità agevolative e normative. A partire da un miglior utilizzo dei fondi europei, sul cui tiraggio le imprese ed i Comuni mostrano palesi difficoltà.

L’obiettivo è evidente: tornare a crescere, interrompendo l’andamento negativo della redditività di sistema che soffriamo dal 2014 e continuerà, in assenza di incisivi interventi,  per dinamiche spontanee dei mercati.

Piero Carducci, economista

leggi anche
piero carducci
Pausa caffÈ
Piero Carducci, le opportunità dietro la crisi Covid 19