Tradizioni abruzzesi

Festa Sant’Antonio, fuochi benedetti tra sacro e pagano

Che si chiamino focarazzi, fuochi o farchie... è tutto pronto in tanti paesini abruzzesi per onorare ancora una volta Sant'Antonio, protettore della vita agreste.

La festa in onore di Sant’Antonio Abate è un rito che si rinnova ogni anno il 17 gennaio e la cui origine, persa ormai nella notte dei tempi, affonda le sue radici tra il sacro e il pagano.

alfedena fuoco

Fuochi benedetti in onore di Sant’Antonio Abate, ma anche tanta allegria, musica, vino e gastronomia per una tradizione che infiamma l’inverno soprattutto nei piccoli comuni dell’hinterland aquilano e abruzzese in generale.

Il culto del santo egiziano, protettore degli animali, è molto legato alla tradizione contadina in questi piccoli borghi.

Un rito religioso che presenta dei tratti pagani, legato a un periodo dell’anno dedicato da sempre al culto della famiglia e al riposo dal lavoro contadino, che prima si passava davanti al fuoco di un camino o di una stufetta, di quelle economiche e smaltate di bianco.

Un atto di devozione con cui la popolazione affidava la custodia e la protezione di quanto avevano di più prezioso: la perdita di quegli animali, infatti, avrebbe potuto comportare per quelle economie fondate sulla sussistenza la rovina, il rischio concreto di andare incontro a lunghi periodi di stenti.

alfedena fuoco

Una devozione che oggi ha lasciato il passo alla parte più ludica: un momento in cui si riscopre la musica popolare, fatta di strumenti e canzoni semplici e soprattutto, ovviamente, della gastronomia locale.

La festa di Sant’Antonio in tanti paesi abruzzesi è legata anche all’uccisione del maiale, un altro vero e proprio rito al quale partecipano amici e parenti che collaborano nel pesante e duro lavoro.

Ru foc‘ o le farchie, a seconda del dialetto, riuniscono gruppi familiari, amici, grandi e piccini, si raccontano storie, si beve, si mangia tutti insieme. Ognuno porta qualcosa, quello che si ha in casa e si sta in compagnia.

Ma chi era questo Santo, chiamato in molte località lu varvùte (il barbuto)?

Antonio è un eremita nato a Koma in Egitto nel 251 e morto in un convento nei pressi del Mar Rosso nel 356. Di lui si ha una biografia redatta da un monaco dello stesso Convento, Atanasio, nella quale Sant’Antonio tutto appare fuorché protettore degli animali domestici, considerati dal Santo eremita creature del demonio che inducono in tentazione gli eremiti.

Sant’Antonio diventa una specie di Signore degli animali in base ad un episodio agiografico che può essere così riassunto. Alla fine dell’XI secolo le reliquie del Santo erano state trasferite in Francia nella diocesi di Vienne (e precisamente in una cittadina che ancora oggi si chiama Bourg Saint’Antoine) da un nobile pellegrino, Gastone.

Nel 1297 nacque l’ordine questuante degli Antoniani, il quale richiamandosi alla regola di Sant’Agostino si diffuse in seguito per tutta l’Europa.

Una singolare specializzazione terapeutica degli Antoniani era quella di curare l’ergotismo cancrenoso, detto “ignis sacer” o fuoco di Sant’Antonio, mediante il grasso di maiale misto ad alcune erbe.

Questa terribile malattia, che “divorava come il fuoco” soprattutto gli arti inferiori, destinati perciò spesso all’amputazione, era causata da un fungo che si sviluppava nella farina di segale cornuta, largamente impiegata nel basso medioevo dai ceti rurali ed indigenti per confezionare il loro pane quotidiano

Sicché le comunità rurali provvedevano ad allevare i maiali, fornendo agli Antoniani il prezioso grasso con cui i frati curavano l’ergotismo, all’epoca epidemico.

Cominciano così a diffondersi le prime immagini che raffigurano sant’Antonio con un porcellino ai suoi piedi e che, ancora nel XVII secolo, creavano non lieve imbarazzo ai teologi della chiesa di Roma, i quali non riuscivano a spiegarne i motivi.

Uno dei paesi in cui il culto di Sant’Antonio non ha perso il suo antico smalto è Collelongo, nell’Aquilano.

sant'antonio collelongo

Le prime attestazioni storiche relative al culto di Sant’Antonio Abate a Collelongo risalgono allo scorcio del 1600, periodo in cui verosimilmente venne eretto l’Altare dedicato al Santo nella chiesa di Santa Maria Nuova.

A partire dalla prima metà del XVII secolo iniziarono a comparire le registrazioni dei nati, dei morti e dei matrimoni dell’arcipretura di Santa Maria Nuova, Chiesa Parrocchiale del paese. Nel Liber Mortuorum si fa esplicita menzione della prassi di seppellire nelle pile cimiteriali poste al di sotto del piano pavimentale della Chiesa.

In un documento del 1640, l’arciprete registrava una sepoltura sotto il pilastro di Sant’Antonio. Con molta probabilità il pilastro menzionato è relativo all’altare su cui è eretta la statua lapidea del Santo.

Sul piedistallo di questa si conserva ancora oggi l’incisione di un restauro avvenuto in occasione della visita del Vescovo Corradini nel 1692.

La festa si svolge nelle Cuttore. Il termine deriva dalla grossa pentola dove si mette a cuocere il granturco che, dopo sei/sette ore di bollitura, diventa “i ceceròcche” (dal latino cicercrocus, cece rosso). Identifica il focolare che, al rintocco delle campane dei vespri del giorno 16, con la recita delle litanie – classica orazione di carattere apotropaico volta ad ingraziarsi la benevolenza del Santo – viene acceso con legna di ginepro.

Ma la “cuttora” è più in generale il locale dove si svolge la festa per l’intera notte, si ospitano i pellegrini e le bande di suonatori che girano tutta la notte intonando i versi della classica canzone. La “cuttora” viene allestita all’interno di abitazioni private ubicate in diverse contrade del paese.

Alcune di queste sono residenze storiche delle famiglie più altolocate, altre sono abitazioni caratteristiche del paese ricavate dal banco roccioso; molte sono invece modeste abitazioni che vengono riqualificate e spesso restaurate  per l’occasione.

La “cuttora” era prerogativa, un tempo, del patriarca di una famiglia che invitava a parteciparvi i parenti più prossimi, i quali contribuivano con “coppe” di granturco, vino, farina o salsicce. La festa dentro la “cuttora” proseguiva per tutta la notte ed era anche il momento in cui venivano pianificate la semina e le altre attività agresti della famiglia.

Alla presenza del Santo erano vietate liti e, pertanto, il momento era propizio per arrivare ad accordi. Nella “cuttora” erano ben accetti i viandanti o i pellegrini ai quali veniva offerto ciò che la “cuttora” aveva, ovvero la “panetta”, qualche ciambella, un bicchiere di vino e, soprattutto i “cicerocche” conditi grossolanamente con un po’ di lardo (chi se lo poteva permettere). I “cicerocche” la mattina venivano poi offerti fuori la chiesa come cibo sacrale per gli animali.

Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici; S. Antonio venne rappresentato in varie opere d’arte con ai piedi un cinghiale o un maialino.
Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, “torcioni”, “farchie”, “focarazzi”, “ceppi” o “falò di S. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera.

Il “torcione”, caratteristica unica di Collelongo, una volta era ricavato da un unico esemplare di quercia che abili maestri d’ascia provvedevano a lavorare fino a dargli la caratteristica forma.

Questo successivamente veniva “inzeppato” con “stangoni” ed altra legna ed infine issato nelle piazze principali del paese. Particolarmente suggestivo era “I favòre”, falò che i pastori accendevano in località S. Antonio. Da questo punto è possibile vedere sia il paese che gli stazzi di Amplero e la tradizione vuole che al più vecchio ed al più giovane tra i pastori che tornavano dagli stazzi a far festa fosse dato l’onore di accendere il “favòre”.

Menzione meritano le “torcette”, le particolari torce che i bambini di Collelongo utilizzano nella processione del 16 sera. A differenza delle normali torce che si usano altrove, quelle di Collelongo sono realizzate “torcendo”, ovvero avvolgendo su se stesso (da qui il nome) un virgulto di roverella, cerro o carpine.

Questa operazione sfibra il legno permettendo alle abili mani del torcettaro di ricavarne un prodotto unico per la gioia dei tanti bambini, i nuovi devoti alla festa di Sant’Antonio Abate.

Quest’anno si inizia giovedì 16 alle ore 16:00 con l’accensione delle “Cuttore” scandita dalla tradizionale orazione al Santo. Da questo momento e per tutta la notte in queste “Cuttore” si accolgono ed ospitano i pellegrini e le bande di suonatori che gireranno per il paese intonando i versi della classica canzone e ricevendo come forma di ringraziamento per la visita cibo e bevande.

Con l’arrivo del buio, alle 19:00, è il momento dell’accensione dei “Torcioni”, grandi torce che illumineranno e scalderanno i pellegrini per l’intera nottata. Alle 21:00 dalla Chiesa Parrocchiale partirà la processione, aperta dalle tradizionali “torcette” portate dai bambini, per la benedizione delle “Cuttore”.

La nottata sarà scandita delle bande e dalla canzone di S. Antonio Abate fino alle 5:30 quando in Piazza della Chiesa verranno distribuiti i “cicerocchi” (gran turco bollito nelle “Cuttore” e distribuito sin dalla sera del 16).

Alle 06:00 è tempo della sfilata e della premiazione delle “conche rescagnate”, conche di rame addobbate portate dalle giovani del posto vestite con abiti tradizionali. A conclusione seguirà la Santa Messa. Ultimo appuntamento è alle ore 14:30 in Piazza Ara dei Santi dove ci sarà la benedizione degli animali e dei mezzi agricoli ed a seguire i giochi popolari.

alfedena fuoco sant'antonio

Una festa antica in onore di Sant’Antonio che si rinnova anche ad Alfedena, piccolo borgo del Parco Nazionale d’Abruzzo; in ogni casa, le nonnine di una volta avevano almeno un’immaginetta del santo, sormontata da un piccolo ramoscello di ulivo che veniva benedetta dal parroco del paese.

Per più di mezzo secolo c’è stato don Camillo Lombardi, oggi scomparso, devoto al santo e alla tradizione della festa.

Oggi, a tenere viva la tradizione, ci sono tutti o quasi i giovani del paese che già da giorni stanno accatastando “le lena” per preparare i tanti fuochi che verranno accesi in vari punti del piccolo borgo.

sant'antonio

Fra i tanti che animeranno questa giornata, merita sicuramente una menzione Crispino Crispi, titolare di uno storico alimentari e da poco in pensione. Crispi è molto legato a un fuoco in particolare: quello della via Canapina, la strada dove abitava con i genitori Giovanni Ida, molto conosciuti in paese e che oggi non ci sono più.

alfedena fuoco

“Fuochista da sempre”, così si definisce, ha cominciato questa attività nel 1966, quando la via era abitata da tanti personaggi che hanno fatto la storia del paese.

Ognuno porta quello che ha in casa: due patate da cuocere alla brace, il pane fatto in casa, un po’ di vino e, tra stornelli improvvisati, si ripercorrono le storie e gli episodi legati a tanti personaggi che hanno caratterizzato il paese; e per chi ne ha ancora memoria anche la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che colpì molto queste zone che si trovavano lungo la linea Gustav e sotto lo scacco dei bombardamenti.

Sulle tavole improvvisate spunta la panonta, le “lullitte e faciule”, le tanto amate “ciceranate”, che altro non è che  granturco bollito nelle cottore e servito nei cartocci, ai tanti che hanno prima partecipato alla processione.

alfedena fuoco

Proprio ad Alfedena, nel 1990, durante una delle feste in onore del Santo, cominciò a circolare l’idea di raccogliere tutte le canzoni del paese. Un lavoro certosino, portato avanti da Crispino Crispi insieme alla sorella. Da lì la nascita del coro “Senza pretese” composto da circa 30 ragazzi del paese, che due anni dopo fece anche un piccolo concerto in piazza.

alfedena fuoco

Dopo Alfedena, anche Capitignano si prepara alla consueta rievocazione della festa in onore di sant’Antonio Abate.

Come molti degli usi e costumi vigenti nei tempi passati e tramandati oralmente di generazione in generazione, anche la tradizionale festa di Sant’Antonio viene ancora oggi conosciuta attraverso la memoria e rievocata in tantissime località rurali d’Italia, nonostante le radicali trasformazioni socio-economiche degli ultimi decenni.

La data è quella del 17 gennaio di ogni anno, coincidente con la nascita di sant’Antonio e con l’inizio del Carnevale.

In ogni realtà la festività si svolge con spirito meramente ludico ma senza rendersi conto del profondo significato storico-antropologico che hanno tali rituali.

La festività di Sant’Antonio, meglio conosciuto nel mondo rurale abruzzese come Sant’Andònie de jennàre o de lu porche, è ricca di riferimenti sociali e religiosi nonché di significati antropologici che meritano di essere analizzati anche sotto il profilo storico.

La narrazione tramandatasi nel tempo a Capitignano non si discosta molto da quella più comune che racconta dei fuochi (le farchie) in ogni quartiere, dei balli, delle musiche, delle pietanze tipiche luogo per luogo in offerta, della benedizione degli animali e del sale e che così viene trasmessa alle generazioni del nostro paese “Dove gli si fa notte”, questo era il detto ricorrente nel mese di gennaio dedicato al culto di Sant’Antonio Abate.

Un maialino, già nei mesi precedenti veniva allevato dall’intero villaggio.

Quando, lasciato libero entrava nelle case, era segno di buon auspicio per la protezione degli animali. La sera era ospitato in una delle tante stalle del paese.

Il giorno della Vigilia di Sant’Antonio veniva macellato.

Le zampe, “gli zampitti”, venivano messi all’asta e chi si aggiudicava il palio, il 17 gennaio preparava il maiale, poi offerto alla comunità con il farro, la “quagliata”, le rape rosse, i tagliolini e i fagioli.

Nella ricorrenza gli animali erano coperti con nastri colorati e ghirlande e poi venivano benedetti fuori dalla Chiesa.

Gli uomini portavano cesoie e tenaglie incrociate, simbolicamente preservavano gli animali. Quelli domestici, invece, entravano in Chiesa e lì venivano benedetti”.

Questa amata tradizione fu riproposta dal Comitato ’97 Pro San Flaviano” (Patrono di Capitignano) nell’anno 1997 di concerto con la civica Amministrazione.

Da 24 anni, quindi, su coordinamento del Presidente del Comitato, Pio Fulvi, la tradizione è stata ininterrottamente rievocata, sempre in collaborazione con le Amministrazioni civiche succedutesi nel tempo e con alcuni volenterosi cittadini.

“Con la scomparsa di alcuni prodotti rurali, come la cagliata o le rape rosse – spiega al Capoluogo il Presidente – da qualche tempo le vivande in offerta da noi a Sant’Antonio sono composte dal farro, (solo di recente da pasta con ragù di carni -maiale-vitello-pecora- spezzatino di vitello, salsicce alla brace e contorni occasionali (verza e patate o altro), il tutto servito gratuitamente ai partecipanti, al cospetto di un grande fuoco, ad un bicchiere di buon vino e insieme a colui che in questa data la fa da principe, sua maestà il maialino che si atteggia in bella vista al centro della piazza centrale del paese, pronto per seguire colui che se lo aggiudicherà attraverso il palio, con il cui ricavato si provvederà a far fronte alle spese per la festa”.

Su questa antica festa che si mescola tra riti sacri e pagani va ricordato che esiste un fondamentale studio del professore Alfonso Maria Di Nola, per un periodo Docente all’Università di Arezzo, nella registrazione dei Canti di questua e nelle inchieste condotte sul campo in varie località abruzzesi, confluite nel saggio Gli aspetti magico – religiosi di una cultura subalterna italiana ( Boringhieri, 1975).

Sant’Antonio, come è noto, è rappresentato specie nelle immagini votive, attorniato da molti animali da cortile, fra cui il maiale, definito da sempre ‘la grascia’ e la ricchezza della casa contadina.

Del pingue animale infatti non si buttava nulla e le stesse setole venivano utilizzate sia per la confezione di pennelli da barba che per imbottire i cuscini.

Una delle canzoni più famose dedicate al Santo conosciuta in tutto l’Abruzzo, è Sant’Antonio a lu deserte; le numerose strofe ricordano, con spirito ludico, le tentazioni di sant’Antonio, le proverbiali lotte tra l’anacoreta e Satanasso.

Sant’Antonio allu diserte s’appicciava ‘na sicarette
Satanasse pe’ dispiette glie freghette l’allumette
Sant’Antonio nun se la prende cun lu prospere se l’accende
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie.

Sant’Antonio allu diserte se faceva la permanente
Satanasse le’ dispiette glie freghette la corrente
Sant’Antonio non s’impiccia, con le dita se l’arriccia
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice de lu dimonie.

Sant’Antonio allu diserte se cuciva li pantalune
Satanasse pe’ dispiette glie freghette li buttune
Sant’Antonio se ne freghe cun lu spaghe se li lega.
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu demonie.

Sant’Antonio allu diserte cucinava gli spaghette
Satanasse pe’ dispiette glie freghette le furchette
Sant’Antonio nun se lagna cun le mani se le magna
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie.

Sant’Antonio allu diserte se lavava l’insalata
Satanasse pe’ dispiette glie tirette na sassata
Sant’Antonio lo prese pel collo e lo mise col culo a mollo
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie.

Sant’Antonio allu diserte se diceva le oraziune
Satanasse pe’ dispiette gli fa il verso dellu trumbune
Sant’Antonio col curtellone gli corre appresso e lo fa cappone
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice de lu dimonie.

Vi saluto care amice lu signore ve benedice
e fa cresce lu patrimonio cun le grazie e Sant’Antonio
ca dimane Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie
Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice dellu dimonie

Le foto riguardanti Alfedena sono di Francesca Leoni, amministratrice della pagina Facebook “Sei di Alfedena se” e dell’assessore comunale di Alfedena, Paolo Monacelli.

 

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