L'editoriale

La bilancia, simbolo di giustizia

Fulgo Graziosi si interroga, nel suo editoriale, sulla fine del referendum nazionale sulla “riforma della Costituzione e sull’abolizione delle Province”, sul quale il “popolo sovrano” ha espresso a stragrande maggioranza il deciso diniego.

In giro per città, musei e tribunali troviamo la raffigurazione di una bilancia che assume un deciso valore simbolico, al di là della funzionalità della stessa.

Normalmente la bilancia è il simbolo della giustizia e del civile comportamento, e, in particolare, della misura, della prudenza, dell’equilibrio, del confronto tra le azioni e gli obblighi.

Per capire bene il significato di questo strumento dobbiamo tornare indietro fino al tempo degli egiziani, i primi di cui abbiamo testimonianza nei graffiti tombali. Infatti, Anubi, dio degli Inferi (in seguito sostituito da Osiride), pesava il cuore dei morti e, per entrare nell’oltretomba.

Questo non doveva pesare più di una piuma. Per gli antichi greci la bilancia era inizialmente il simbolo di Themis, dea della giustizia che manteneva l’ordine, proteggeva i giusti e puniva gli ingiusti.

Tale compito passò poi alla figlia Dike che, nelle iconografie classiche, viene rappresentata con la bilancia in mano e gli occhi bendati, con il compito di proteggere i tribunali.

Oggi, la bilancia rappresenta, o per lo meno dovrebbe rappresentare, il simbolo della giustizia dentro e fuori delle aule dei tribunali.

Ma, così non è. La nuova società, meglio ancora quella che si arroga con buona presunzione il diritto di fare politica, ha rinunciato al privilegio degli equilibri. L’equilibrio è considerato
dall’uomo politico un autentico deterrente.

Il politico deve avere sempre ragione, altrimenti finirebbe per essere considerato un uomo privo di talento, scarsamente illuminato e privo di acume.

Ha capito che, mettendo su un piatto della bilancia “i diritti” e sull’altro “i doveri”, l’ago rimarrebbe ancorato fedelmente al centro.

Tutto ciò non è accettabile. Il piatto della bilancia deve pendere dalla parte di chi esercita il potere con prepotenza, presunzione e con eccessiva disinvoltura.

Quale è stata la geniale trovata? I piatti sono sempre due.

Sul primo poggiano con attenzione i diritti di legiferare e di imporre discutibili decisioni.

Sull’altro dovrebbero essere posti i doveri derivanti dalle decisioni assunte. Se tutto ciò avvenisse
correttamente i piatti resterebbero in equilibrio. Ed ecco la geniale trovata!

Uno dei piatti, su cui dovrebbero essere allocati i doveri, è stato privato del fondo, per cui il contenuto poggiato su di esso finisce inesorabilmente a terra, consentendo all’altro di esercitare tutto il peso in favore dei presunti diritti.

Ed è quello che sta avvenendo proprio in questi giorni in materia della discussa autonomia richiesta da alcune regioni del nord.

Ho sentito e ho letto le pesanti affermazioni di due Presidenti di Regione che, in tono perentorio, hanno detto al Presidente del Consiglio di non ignorare i risultati di un apposito referendum effettuato in due sole Regioni.

Il Governo deve assumere, con tutta l’urgenza che il caso richiede, le dovute determinazioni. Cioè, deve concedere la pretesa autonomia senza esitazioni di sorta. A questo punto vorrei
pormi una domanda, se possibile.

Il referendum nazionale sulla “riforma della Costituzione e sull’abolizione delle Province”, sul quale il “popolo sovrano” ha espresso a stragrande maggioranza il deciso diniego, che fine ha fatto?

Già. È finito a terra. Nel dimenticatoio. Il piatto sul quale era stato deposto era senza fondo.
Bene. Se il principio del referendum regionale, affermato dai due Presidenti, è sacrosanto, altrettanto sacro, in maniera esponenziale, dovrebbe essere quello nazionale che, oltretutto, dovrebbe godere del diritto di priorità, essendo stato effettuato qualche anno prima.

Sarebbe il caso, forse, che il Governo decidesse, una volta per tutte, di mettere un preciso freno a queste corse in avanti delle Regioni, anche perché le stesse hanno la grossa responsabilità di aver determinato pesantemente la crescita del debito pubblico.

Non sarebbe sbagliato, invece, se il Governo decidesse di riprendere alcune funzioni basilari di cui è stato espropriato dalle Regioni.

Le istituzioni pubbliche funzionerebbero meglio. I servizi sarebbero assicurati al cittadino con
metodo e puntualità.

Le leggi dello stato sarebbero applicate uniformemente su tutto il territorio nazionale, senza le debordanti interpretazioni regionali. Al di sotto della bilancia, normalmente, appare una scritta che molti ignorano: “La legge è uguale per tutti”. Iniziamo, perciò, a dare concreto corso alla volontà del “popolo sovrano”.

Non facciamo fare al referendum nazionale la stessa deprecabile fine di quello relativo al finanziamento dei partiti.