8 marzo

Donne, lavoro e discriminazione: le vostre storie

Discriminate, additate, offese. Spinte, spesso, alle dimissioni dal proprio posto di lavoro solo perché donne o mamme. O ancora derise, sottovalutate, non apprezzate.

Sono tante le storie che le donne possono raccontare dai loro posti di lavoro: la stragrande maggioranza di loro hanno avuto a che vedere con la difficoltà, giorno dopo giorno, di dover dimostrare sempre qualcosa in più rispetto ai loro colleghi maschi; con il cercare di arrivare a conciliare tutto – famiglia, casa, lavoro – per sentirsi alla fine sempre in difetto di qualcosa e fare i conti, in molti casi, con i sensi di colpa.

In questi giorni vi abbiamo condotto, attraverso i nostri articoli, a una rilettura dell’8 marzo non come festa delle donne, ma come occasione di ricordo e riflessione: una mamma su quattro perde il lavoro entro i due anni del figlio, e nonostante gli sforzi, spesso tra figli, casa e lavoro sembra di correre una corsa a ostacoli senza fine. Vi abbiamo fatto conoscere, o scoprire, due donne su tutte che hanno lottato e lottano su questo territorio: Donatella Tellini, che ha dedicato la sua vita alla lotta in difesa delle donne e non solo, ed Adriana Tronca, viticultrice forte e tenace che segue la sua strada “perché il richiamo del sangue è più forte di tutto”.

In tante avete scritto e raccontato a Il Capoluogo le vostre storie di discriminazione.

E alcune di queste, in questo giorno speciale, le vogliamo condividere con voi.

donne cover 8 marzo

Ho lavorato un anno e mezzo a “nero”, sottopagata in un negozio. Purtroppo, vivendo in una realtà triste e difficile come la nostra in cui trovare un lavoro non è semplice, pur di lavorare ho dovuto accettare tutte le condizioni del mio datore di lavoro… tutto questo fin quando non sono arrivati, in un negozio vicino al nostro, i controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro e il mio titolare è stato costretto ad assumermi… anche se il contratto da lui stipulato prevedeva meno della metà delle ore di lavoro che io in realtà effettuavo. Tutto procedeva bene fin quando non sono rimasta incinta: ho lavorato per due mesi fin quando non ho avuto delle minacce d’aborto e la mia ginecologa mi ha tassativamente obbligata a stare a riposo. Durante i nove mesi, da parte del mio datore di lavoro, mai una telefonata, mai un messaggio e soprattutto non mi è stata pagata la maternità. La mia bambina ha rischiato di nascere un mese prima: ho avuto una gravidanza intervallata da ricoveri in ospedale e letto di casa. Fortunatamente è andato tutto bene ma dei soldi nessuna traccia….la mia bimba compie tre mesi ed io volevo tornare a lavoro ma il mio titolare ha dichiarato di non essere in possesso di tutta la cifra che mi doveva ed ha iniziato a dirmi che se tornavo  non poteva pagarmi perché aveva problemi economici. Così, mi sono recata da un patronato e sono stata costretta a licenziarmi per giusta causa e, per non mettere in difficoltà il mio titolare,il quale aveva dichiarato una prossima chiusura dell’attività, gli sono andata incontro stabilendo una piccola rata mensile per avere i miei soldi. Alla fine mi sono licenziata, facendogli un enorme favore: ho accettato le sue condizioni di pagamento e adesso lui ha assunto un’altra persona e a brevissimo inaugurerà il nuovo locale molto più grande di quello che aveva. A sua discolpa non fa altro che dire che l’ho fatto apposta a restare incinta! Sono davvero schifata. Un figlio non è un capriccio per non andare a lavoro e dopo lo ridai indietro… Un figlio è il senso della tua stessa vita….un figlio è tutto…e poi l’avrei fatto apposta per far cosa? Per prendere l’80% di 400 euro a stracciabocconi. Purtroppo ho avuto una gravidanza difficile, altrimenti sarei andata a lavoro fino alla fine… questo è davvero un orrore ma se il prezzo da pagare per aver perso il lavoro sono i dolci sorrisi di mia figlia… Anche se tutto ciò non è affatto giusto, sono felice cosi. Grazie mille per aver ascoltato lo sfogo di un’ennesima mamma disoccupata.

Ho lavorato per diversi mesi presso un esercizio commerciale aquilano, pagata poco e male: la scusa era che “dovevo imparare il lavoro”, anche se poi quel lavoro l’avevo già fatto altrove. Non ho figli, ma una mamma anziana che abita con me: abbiamo una donna che viene a darci una mano esclusivamente quando io non sono a casa, visto che mia mamma non è autosufficiente. C’è stato un periodo in cui mia mamma è stata parecchio male e sono rimasta accanto a lei. Nonostante mi spettassero i permessi, non mi sono mai stati concessi, prima con una scusa, poi con un’altra. Il datore di lavoro mi arrivò a dire che se mia mamma continuava a stare male mi sarei dovuta licenziare, perchè lui non poteva continuare a pagarmi per non andare al lavoro. Pur avendo diritto a ferie, che avrei potuto prendere, non mi sono state pagate, sempre con la promessa che avrei potuto prendere quei giorni per assistere mia madre. Come è andata a finire? Mi sono licenziata. Non era più compatibile il lavoro con la famiglia e ho cercato qualcosa altrove. Sono stata fortunata ad aver trovato altro… ma non è possibile che io abbia dovuto scegliere fra mia madre e un posto di lavoro in cui, peraltro, ero sfruttata!

La mia storia è di discriminazione non tanto sul posto di lavoro, ma dallo Stato. Io mi sento discriminata perché come mamma e donna lo Stato non mi ha tutelato e non mi ha fornito gli aiuti che mi doveva concedere. La ditta per la quale lavoravo va in crisi di liquidità e inizia non solo a non pagare gli stipendi, ma nemmeno i contributi. In un momento di estrema difficoltà personale ed economica rimango incinta: continuo a lavorare, felice e cosciente del fatto che “non sono malata, sono solo incinta”. Ma evidentemente i ritmi di lavoro erano troppo frenetici e il mio corpo e la creaturina che avevo dentro mi hanno detto di fermarmi. Diversi mesi passati a letto… Nel frattempo mi muovo per fare tutte le carte, richiedere che la maternità venisse versata direttamente a me, invece che attraverso il datore di lavoro, visto che di buste paga non ne avevo nemmeno l’ombra. Inizia qui la mia odissea con i patronati e l’INPS: perché nonostante tutti i documenti siano stati presentati nei tempi esatti, nonostante obiettivamente la situazione fosse chiara e lampante l’Inps inizia a rimpallare di ufficio in ufficio la situazione. “Non ci sono i contributi”, mi ripetono, “Si deve concludere l’indagine”. Ma nemmeno una volta chiusa l’indagine dell’Ispettorato del Lavoro, con la certificazione nero su bianco dei miei crediti, arrivano i soldi della maternità. A dire il vero, nemmeno la domanda di disoccupazione mi viene accettata, sempre con la stessa scusa: non ci sono i contributi, dobbiamo vedere… Gli uffici non si parlano e passano i mesi. Ecco la mia discriminazione: la burocrazia e l’eccessivo zelo (o al contrario, mancanza di premura) da parte dell’INPS hanno fatto in modo che in un momento molto difficile della mia vita, in cui diventavo madre, me la dovessi sbrigare da sola, senza l’aiuto che pur mi spettava da parte dello Stato.

Diro’ poco, perchè è una cosa che mi fa stare molto male. Non posso avere figli: il mio datore di lavoro, donna, quando lo ha saputo, in una chiacchierata alla macchinetta del caffè, ha gioito. “Meno male, così vieni sempre a lavorare. Sapessi che palle avere i figli che si ammalano e io che devo continuare a pagare le dipendenti che vanno in maternità”. Me ne sono andata. Non da quella azienda, purtroppo, dove lavoro tuttora. Avrei voluto ma le condizioni economiche non mi permettono di farlo.