Un libro di Enrico Crispolti su Alberto Burri, ricordando l’omaggio a L’Aquila

25 gennaio 2016 | 11:44
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Un libro di Enrico Crispolti su Alberto Burri, ricordando l’omaggio a L’Aquila

di Antonello Rubini*

Quello appena trascorso è stato l’anno del centenario della nascita e insieme del ventennale della morte di Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995), uno dei più significativi artisti del Novecento, con i suoi “sacchi”, i suoi “legni”, i suoi “ferri”, le sue “plastiche”, riconosciuto universalmente come uno dei maggiori maestri dell’Informale. Lungo il 2015 tante sono state le iniziative (convegni, mostre, pubblicazioni) collegate più o meno direttamente alla celebrazione di tali ricorrenze, e tra queste senz’altro occupa un posto rilievo il libro di Enrico Crispolti Burri “esistenziale”. Un “taccuino critico” storico preceduto da un dialogo attuale (Fondazione Passaré, Quodlibet, Macerata), curato da Luca Pietro Nicoletti, che raccoglie gli scritti relativi al lavoro dell’artista umbro del grande critico e storico romano, il quale se n’è occupato, scrivendone e inserendolo in mostre, da sostenitore convinto e appassionato, fin dal 1957 (ma conoscendolo, specie nei piccoli lavori, già da prima, tramite soprattutto le personali tenute a Roma alla Galleria L’Obelisco). Allora da giovanissimo studioso proveniente dalla scuola di Lionello Venturi, ma che condividendo appunto il “nuovo” linguaggio di Burri si stava distaccando dal suo maestro (di idee “astratto-concrete”, formalistiche).

Una condivisione che voleva dire riconoscersi, esistenzialmente, nell’eversivo fare di Burri e nell’Informale (impostando, e da allora sarà sempre così nel suo operato, il suo approccio in termini fondamentalmente empirici, piuttosto che ideologici) quanto consapevolezza dell’importante portata valoriale e d’attualità di questa “irregolare” situazione espressiva emergente estremamente forte, abbracciata da molti, con la quale appariva comunque sempre più inevitabile fare i conti, che dunque faceva fatica, almeno in Italia e in particolare a Roma, ancora in quegli anni ad avere ufficialmente riconoscimento. Soprattutto il lavoro di un Burri, sovversivo anche per il suo modo decisamente materiologico di concepire la pittura, impiegando materiali extrapittorici. E Crispolti, di grandissima apertura mentale, tra i critici più avveduti e “liberi”, curiosissimo di tutto l’ampio spettro delle dinamiche espressive, è stato indubbiamente uno dei primi a rompere gli indugi, rivelando le proprie maturate convinzioni, proprio appunto iniziando dall’occuparsi del “caso” Burri, la punta dunque più avanzata e provocante di quella rivoluzione linguistica, perlomeno a Roma (parallelamente a Lucio Fontana, invece a Milano), allora ancora sostanzialmente tutto da scoprire, studiare, documentare, divulgare, anche se già aveva avuto riscontri importanti pure all’estero, specie negli Stati Uniti. Rivelandosi, Crispolti, come puntualizza Nicoletti nella sua premessa, il primo ad aver “offerto un’interpretazione in chiave esistenzialista della sua pittura”: “L’opera di Jean Paul Sartre, fino a quel momento messa in rapporto con il lavoro di artisti come Fautrier e Wols – di cui il filosofo e scrittore francese aveva anche scritto – si prestava in modo particolare a decifrare il pessimismo radicale, privo di orizzonti e di speranza, che stava alla base concettuale della materia combusta e lacerata di Burri. Accanto alla lettura ‘freudiana’, ma altrettanto penetrante, data in quagli anni da Maurizio Calvesi, Crispolti metteva in evidenza il portato ‘esistenziale’ di un uso di materiali eterodossi in funzione pittorica: il sacco bruciato e rattoppato, la plastica toccata dalla fiamma, la lamiera di ferro saldata rimanevano nella dimensione, compositiva, del quadro, ma vi portavano all’interno la loro evidenza di oggetti quotidiani. Ma questi, allo stesso tempo, diventano una metafora immediata della carne ferita, della sofferenza visibile, esistenziale quanto materiale”.

Il “taccuino critico”, che va dal 1957, appunto, al 2012, mostra l’evoluzione della lettura critica del suo lavoro, nel tempo sempre meno “di militanza” e più storiografica, e al contempo meno continuativa, in una comunque costante strenua convinzione della straordinaria qualità del lavoro di Burri degli anni Cinquanta e Sessanta, di contro ad un giudizio invece negativo sulla produzione successiva, di recupero formalistico. Lo precede un dialogo con Nicoletti, dove Crispolti “racconta”, contestualizzandolo, il suo rapporto con Burri e l’opera, i propri ricordi, la vicenda di Burri e la propria, e la sua personalità, mentre lo segue un saggio finale dello stesso Nicoletti che analizza a tutto campo la vicenda di Burri rapportandola al lavoro di Crispolti sulla sua arte e limitrofa, e alla storia di quest’ultimo, ma anche a quello di altri critici e al fare di altri artisti contestuali (come quello straordinario dello scultore informale marchigiano Edgardo Mannucci, peraltro intimo amico di Burri, purtroppo oggi piuttosto dimenticato).

Nel libro, naturalmente, è ricordato, riportandone anche il testo relativo apparso nell’ormai raro catalogo, l’“omaggio” che Crispolti volle fargli nell’ambito di Alternative Attuali del 1962, la prima di quelle quattro memorabili vaste rassegne internazionali, dove erano messe a confronto le ricerche d’avanguardia attuali, tenutesi a L’Aquila negli anni Sessanta, presso il Castello Cinquecentesco. Rassegne che nel loro essere “mostre-saggio” portarono una ventata d’aria nuova nel modo stesso di concepire le esposizioni, rispondenti cioè ad un preciso discorso critico. L’“Omaggio a Burri”, che Crispolti fece senza alcuna collaborazione da parte dell’artista, che volle starne fuori, fu la prima antologica in Italia a lui dedicata (con una quarantina di opere importanti tra il 1948 e il 1961). Mostra che consacrò definitivamente in Italia il suo lavoro, tant’è che pare che Cesare Brandi, che da quel momento ambirà ad essere “il critico di Burri”, si accorse della sua effettiva grandezza, e poi, avvicinandolo, si adoperò per la realizzazione della corposa monografia edita l’anno successivo da Editalia, proprio visitando la retrospettiva aquilana; dunque rimanendone folgorato. Anni dopo, nel 1969, Burri “tornò” a L’Aquila, questa volta collaborando attivamente, realizzando per il Teatro Stabile della città le scene de L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, il cui regista era Valerio Zurlini.

*critico d’arte