Lutto

Sabrina ci ha lasciato

di Raffaella De Nicola

Mi sento i suoi occhi incollati addosso mentre sto uscendo dalla stanza dell’ospedale, quasi un silenzio urlato. Allora mi volto, le sorrido per l’ultima volta, e mando con le mani che allargo su tutto questo dolore immateriale, ma palpabile, due baci a quella Madonna che è diventata, trasfigurata dalla sofferenza , le braccia aperte come Cristo in croce. I grani del rosario scorrono su una malattia che le ha tolto tutto, meno la bellezza del viso. Argento vivo, amore puro, fiore d’acciaio. Questo era Sabrina, un muro che è diventato un velo di lutto a separare le nostre case, io che sfioro le pareti per accarezzarla, lei dall’altra parte risponde, io con l’orecchio incollato a cercare i rumori rassicuranti, i rimproveri energici, lei che batte il ritmo per la sua famiglia, io per la mia, i suoni della quotidianità mescolati in un concerto che diventava unico, lo zucchero che manca e sì te lo riporto domani. E l’assurda sicurezza che lei ci sarà sempre, tutti noi arrampicati sulla sua ostinazione non posso lasciare mio marito e mio figlio, protetti dalla sua importante presenza. Una storia unica, forte, schioccante, una malattia cannibale nutrita da una vita giovane e coraggiosa, la sua forza trasparente e cristallina che ha un solo nome: un Dio, invocato, cercato, trovato, corteggiato, sopportato, mentre accarezzava la sua morte e baciava la sua croce. Una incredibile proposta di vita e morte, testimonianza disorientante per il pensiero laico, grande più di noi, incontenibile, sconcertante, tizzone che ardendo risplende, scalfitta, smantellata, depredata come un ramo di corallo che si ossifica e diventa gioiello. Agli amatissimi, e splendidi, Alessandro e Gianluca Agostinelli, alla madre, la sorella, a tutta la sua famiglia, a questo profondo sacrificio nascosto nelle pieghe della normalità, il cordoglio sincero della redazione e di quella comunità che, incredula, ha assistito alla tenacia e ostinazione di un ciclone, finalmente declassato, spentosi e diventato, ora, vento silenzioso, delicato, pieno di polvere di una nuova stella, di altri mondi misteriosi

Riproponiamo il testo della sua storia, pubblicato nel giugno 2014

Sabrina ( 21/03/1973 – 13/01/2016)

La vedo uscire come ogni mercoledì, le tapparelle appena alzate, infagottata e tesa perché le vene non si prendono più. Quando rientra mi mostra i lividi sulle braccia, macchie scure come tatuaggi che hanno indagato i valori del suo corpo. Domani è giovedì, terapia. Si vestirà comoda e calda perché ha sempre freddo, prenderà il rosario e con la sua vita congelata entrerà, e non vede l’ora, nel reparto di Oncologia Medica dell’Ospedale dell’Aquila, dove Katia e Valentina l’aspettano.

E’ giovane Sabrina con i suoi 41 anni, occhi da gatta, ha attraversato due anni fa il giardino, ha guardato la mia commozione di fronte a quel maledetto fazzoletto sul capo, io che abbassavo la testa, i respiri corti e rotti, mentre le parole ormeggiavano la vita sulle sponde nere della malattia è infiltrante prima la chemio poi l’intervento e dopo vediamo. E io così la rivedo, ogni giovedì, fossilizzata in quell’immagine di chi viene improvvisamente traghettata nell’altra, di vita, come un ramo di corallo che si secca fino a ossificarsi.

Ora Sabrina entra, è giovedì, la visitano, scambia i sorrisi con Katia e Valentina e si sente a casa, fra letti, siringhe, aghi, teste calve, pigiami e passi strascicati, si rilassa, si siede sulla poltrona rossa, non le va tanto di parlare, le vite delle altre che si intrecciano con la sua, vede qualcuno piangere e allora parla, Sabrina, e scuote brutalmente chi piange e incita e si arrabbia e non dà tregua né al compatimento né al vittimismo.

Qui, in questo reparto, dove le vite si sospendono, rimangono impigliate, la quotidianità si frantuma, dove devi accarezzare la morte per fartela amica, Sabrina trova un microclima accogliente che la fa sentire al sicuro. Qui la potenza della malattia non fa scalpore o scandalo, come fuori, dove gli sguardi sfiorano, impauriti o sconvolti, i suoi occhi nudi senza ciglia, l’imbarazzo di chi si avvicina, la diversità che ti si incolla addosso e la distanza inevitabile dalla vita di prima, come un mar rosso che improvvisamente si apre, e tu sei sola in quel passaggio. Era e non è più. Su quelle poltrone rosse, di fronte gli altri malati, agganciata alla vita da una sacca, i rumori rassicuranti di chi tenta di salvarti, il conforto del personale del reparto risuona anche quando torna a casa, spossata e affannata, il fiatone per ogni piccolo spostamento, la sua carne che si fa preghiera, quel Cristo che sente in lei morto e risorto e io che l’ascolto perplessa, la laicità del mio pensiero, ma alla fine la trovo e la ritrovo in quell’umanesimo che è al di sopra dei credo.

E’ dura, però, fa lei, pensando a come si sentiva prima, la bellezza che le girava attorno, i capelli lucidi e neri, il viso senza macchie. E poi le ombre delle altre storie sì lei ce l’ha fatta e no, Patrizia no e quel giovedì maledetto, la pressione alta, lui qualche metro più in là sul letto d’ospedale, lei sulla poltrona rossa, vicini anche in questo destino, un match point cinico, lei che guadagna terreno mentre lui se ne va per sempre, l’amico-padre che l’ha forgiata nella fede, il caro Beniamino, le prospettive che si restringono senza quell’affetto e la voglia, che ringhia, di mollare tutto. Ma c’è suo figlio negli orizzonti, lo sguardo preoccupato e perenne su di lui, un bambino che la corteggia come una principessa, i messaggi, i biglietti che trova in cucina, in camera e quella sua richiesta, tenera e meravigliosa, mamma vienimi a prendere a scuola con i tacchi, come prima, e la carezza del marito. E allora l’acciaio che torna nelle fibre dei suoi tessuti smagliati, la lotta sconvolgente che scarnifica la vita, la resilienza, l’orgoglio e la dignità, la banalità dirottata all’essenza, i ringraziamenti al suo Dio, e questo è veramente troppo distante da me, e quel campanello che suona, è lei che torna, oggi è un altro giovedì, è stanca e stravolta però mi guarda e dice, con un soffio che odora di vita, per favore, prestami le parole, voglio ringraziarli tutti.

Il testo viene pubblicato come testimonianza che Sabrina Marchitelli vuole rendere sia per ringraziare, con enorme affetto, gli operatori del reparto di Oncologia Medica e la loro dedizione – il professor Corrado Ficorella che lo dirige, le dottoresse Katia Cannita e Valentina Cocciolone e tutto il personale – sia per avvicinare le distanze complesse al delicatissimo mondo dell’oncologia medica.