Cultura

Dal 6 aprile verso il nuovo Museo Nazionale d’Abruzzo

di Raffaella De Nicola

E’ il 1951. Luigi Einaudi, allora Presidente della Repubblica, è davanti al Castello Cinquecentesco dell’Aquila. Inaugura, nei locali che una lungimirante politica aveva deviato da un uso penitenziario, il Museo Nazionale d’Abruzzo, nel Forte aquilano, oscuro presidio, qualche anno prima, dell’occupazione tedesca. Inizia in questo modo, con le opere confluite dal Museo Civico e Diocesano, la narrazione di un territorio: archeologia, arte sacra, numismatica, oreficeria, ventagli, tessuti, arte moderna e contemporanea, 60.000 visitatori l’anno, mostre ed eventi fino a quando, una notte, la mano della terra traccia un solco.

Madonne e Santi, allora, scivolate come altre volte, nella lunga sequenza di storia sismica, fra l’umanità, scendono nuovamente dalle tavole medievali, si muovono fra polvere e macerie, asciugano il pensiero degli uomini e poi tornano lì, nel Museo, la Madonna del Latte, delle Concanelle, in Trono, De Ambro, spezzate e scheggiate, dopo essersi chinate accarezzando chi, inginocchiandosi davanti loro, deponeva la trama della propria esistenze in questo lembo di conca che un tempo era un lago. E su questo lago, sul fianco sinistro, 1.300.000 anni fa, giaceva il Mammuthus, splendido ritrovamento collocato sin dal 1958 nel bastione est, che ora Lorenzo chiude, per l’apertura straordinaria delle Giornate Europee del Patrimonio, 10.000 presenze in due giorni per rivederlo restaurato, questo totem fossilizzato, grande sinergia di tutti gli uffici periferici del Ministero Beni Culturali e del Turismo, in quel giro di serrature che ricorda la ritualità quotidiana sino al 6 aprile ora sospesa, spezzata, in mezzo ad un cantiere gelido e metallico.

E’ Maria Pia a parlarmi di quella guardiania, consueto turno notturno insieme ad altri custodi, quella notte, con l’incredibile rumore, loro che pensavano di essere al sicuro proprio lì nel castello che dal ‘ 500 sfidava le onde sismiche, e vedevano al buio la polvere uscire dalle pietre come fumo mentre l’allarme dell’autopompa tendeva l’aria priva di campo che non permetteva di contattare i familiari e pensavano che il ponte fosse crollato. Fino a quando altri colleghi li hanno raggiunti e allora Lucio è salito, scavalcando lo scalone d’onore, l’acqua che colava sui quattro santi protettori del gonfalone, la Madonna di terracotta esplosa, il crocifisso caduto frontalmente spezzandosi sul naso, tanto che neanche un accurato restauro ha potuto sanare la frattura delle fibre sul viso magro del Cristo, che ci sembra, ora, quel viso, ancora più scavato.

Mesi di lavoro dei funzionari MiBACT e dei vigili del fuoco e quelle bocche aperte sul fronte sud-est del Castello da cui circa 400 opere sfioravano le nuvole sulla piattaforma che sembrava un disco volante e poi atterravano come feriti su barelle, avvolte in un sudario bianco di cellophane. Il Museo Nazionale dell’Aquila, emigrante, si polverizzava, allora, in una diaspora di ricoveri mentre l’ex Mattatoio, nuova frontiera del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, anche a Roma diventato sede del MACRO, a L’Aquila di fronte le 99 cannelle, veniva ripensato come nuova sede del Museo nel borgo della Rivera, grembo di una città medievale. Sorgente e fertilizzante per un territorio verrà inaugurato appena possibile, work in progress, con una esposizione parziale di opere, in attesa dell’ultimazione dei lavori al Forte dell’Aquila. Un nuovo museo che riapre le porte proprio lì, dove l’acqua delle cannelle già una volta ha battezzato la città, e ora ribattezza un percorso identitario ed emozionale che restituisce i segni dei tempi scanditi dal flusso continuo dei mascheroni che segna , ora come allora, il ritmo di un metatempo che riinizia a pulsare.

Fotografie di Marcello Spimpolo.