L’Arte per la Terapia, una passione marsicana

25 aprile 2015 | 11:44
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L’Arte per la Terapia, una passione marsicana

di Gioia Chiostri

L’Arte entra di petto nelle case della riabilitazione psichiatrica. La bellezza di un singhiozzo. La perfezione di un sorriso a bocca chiusa. L’arte, la parola, la necessità di operare un parto psicologico, tirando fuori la personalità ammaccata da un invisibile disagio psicologico. Germana De Meis, giovane ragazza originaria di Capistrello e approdata a Roma per applicare le giuste sospensioni alle sue ali di cera artistica – conseguendo la laurea in ‘Arte per la terapia’ presso l’Accademia di Belle Arti di Roma – ha incominciato, ad un certo punto della sua vita, a lavorare per gli altri. Potremmo definire Germana un’infermiera sui generis, che, armata di pennelli, colori e buonumore miscelato a tanta generosità, rende i Centri Diurni per soggetti con disagi psicologici veri e propri laboratori d’arte ‘terapeutica’: in sostanza, sedi della riscoperta di una vita dimenticata. «Io credo che questo lavoro sia un continuo scambio di dare e ricevere. Io do il mio tempo, il mio sapere, la mia forza di volontà e, in cambio, comprendo ‘il senso della vita’».

«Tutto – racconta a [i]IlCapoluogo.it[/i] – è partito dalla passione che ho per l’arte in senso lato, la quale, a mio parere, risulta essere l’espressione estetica per eccellenza dell’interiorità umana. L’arte rispecchia le opinioni dell’artista in ambito sociale, morale, culturale, etico e religioso del suo proprio periodo storico di vita, quindi è diventa anche utile per indagare le emozioni dell’uomo, trasformando i suoi limiti in qualcosa di positivo attraverso l’astuzia della creatività. Tutto ciò ha portato la mia passione a mescolarsi con una realtà intima e sincera, quale quella del disagio psichico». Germana, infatti, da un anno a questa parte, ha incominciato a lavorare con un team di ‘artisti-professionisti’ romano, che si occupa di riabilitazione di ragazzi ‘speciali’, attanagliati, cioè, da un male invisibile all’occhio umano.

Germana ha praticamente calato la preziosità artistica – in parte innata, in parte assorbita durante il suo peregrinare accademico – nei vicoli bui del reale, «e, da quel momento, – dice – ne ho fatto il mio lavoro. Seguo personalmente un ragazzo in una Scuola d’arte. Ho creato per lui un programma ‘personalizzato’ finalizzato ad uno scopo terapeutico. Ho avuto, alle spalle, un gruppo di lavoro durante i miei due anni di tirocinio presso un Centro Diurno di Roma; un gruppo composto da varie figure professionali, come psicologi, psichiatri, operatori, infermieri ed artisti come me, seguiti tutti da un grande professionista del settore, ossia il professor Franco Nuti, che è stata un po’ la mia guida spirituale. L’incontro con una docente universitaria, poi, è stato ‘illuminante’ e ha consolidato in me ancor di più la scelta personale di mettere a disposizione le mie conoscenze artistiche a persone con gravi disagi psichici».

L’arte fa bene alla terapia, quindi. Ma in che modo la rafforzerebbe? «L’arte per la terapia è una disciplina che si differenzia molto dall’arte-terapia; la preposizione ‘per’, in questo caso, cambia completamente l’approccio sia nei confronti dell’arte, sia nei confronti della persona che ne trae beneficio. L’importanza dell’arte in questo contesto, risiede nel processo creativo e non nel prodotto finito. Durante un laboratorio d’arte, cioè, l’allievo, in questo caso un allievo ‘speciale’, apprende le varie tecniche artistiche attraverso le quali egli è completamente libero di esprimersi e di dimenticare, in quell’arco di tempo ‘artistico’, il disagio che lo tormenta. Lo scopo sotteso è utilizzare materiali artistici come strumento di allontanamento dalla malattia; l’arte, insomma, diventa una sorta di valvola di liberazione».

Germana, poi, è una pittrice dalle mani d’oro da sempre, cresciuta, però, come scenografa a livello accademico. Inaugurò la sua prima mostra di dipinti personale alla sola età di 19 anni, ad Avezzano, quand’era ancora al Liceo. Nel 2011, collaborò con il Teatro dell’Opera di Roma per la realizzazione di un progetto didattico relativo all’opera ‘L’ elisir d’amore’ di Donizetti indirizzato a scuole elementari e medie inferiori. Nell’estate dello stesso anno, fu aiuto-scenografa ai fini della realizzazione del cortometraggio ‘Uno studente di nome Alessandro’ di Enzo De Camillis, presentato al Roma Fiction Fest nel mese di settembre. «Io mi nutro di arte ogni giorno – afferma – è l’unico mezzo che, a mio parere, ci consente oggi di essere liberi davvero. Nutrirsi di arte vuol dire divorare ogni cosa che ci circonda e arricchire la propria anima in ogni secondo di vita vissuta».

Da Capistrello a Roma, il salto è stato autoindotto e, sembrerebbe, anche indolore. Ma l’Abruzzo, si sa, è una terra che non si dimentica facilmente. Nei suoi lavori, tutt’ora in fieri, è rimasta, di fatti, quella «semplicità tipica della nostra terra. Ogni volta che torno a Capistrello – dice – osservo tanto: la bellezza del paesaggio, la tranquillità delle persone, la saggezza degli anziani. E’ proprio in questi frangenti che rubo il materiale astratto per condire ogni mia opera concreta».

Nel lavoro di Germana, il disagio umano e l’incomprensione sociale sono condizioni fisse e all’ordine del giorno. Come si fa a sconfiggerle con la creatività? «La peculiarità principale della creatività, è la ‘maieutica’, ossia ‘l’arte di far nascere’. Essa rappresenta la matrice scientifica che caratterizza ogni laboratorio d’arte. La maieutica permette, infatti, di lavorare con efficacia sui conflitti della persona umana, i quali sono elementi estremamente soggettivi e innescanti un sistema individuale di significati cognitivi, emotivi e psicologici. E’ un metodo operativo e specifico, questo, che pone l’attenzione sulla capacità di attivare processi di trasformazione e di apprendimento che coinvolgano la parte più profonda dell’anima. Con la creatività, è giusto dirlo, non si pretende assolutamente di ‘guarire’; anzi, attraverso di essa, si cerca solo di condurre la persona con un disagio a familiarizzare con esso e, riscoprendosi in ‘grado di fare’, a ristabilire un corretto rapporto con la realtà e, conseguentemente, con la società».

Ogni buon lavoro funzionale alla società che si rispetti poi ha bisogno, però, anche di una ‘protezione’ istituzionale. Il sistema – anche seminascosto – dell’Arte per la terapia è oggetto di finanziamenti statali? «La nostra figura in Italia, purtroppo, è ancora troppo poco conosciuta. All’Estero, invece, risulta essere di fondamentale importanza e presente da tantissimi anni, ormai. Siamo riconosciuti, comunque, come operatori che svolgono questo genere di attività da diverse Associazioni, dalle Asl e dagli Ospedali che richiedono esplicitamente una figura di questo tipo. Non sono presenti bandi o concorsi attualmente, ma spero che qualcuno si renda conto di quanta valenza possa avere questo genere di lavoro in merito alla riabilitazione psichiatrica».

Riabilitare vuol dire riaccordare il dentro con il fuori. Una vecchia chitarra scordata è ancora in grado di suonare melodie incantatrici, anche se non lo sa. Si può ben dire che operatori come Germana De Meis aiutano chicchessia a riscoprirlo, perché l’arte è per tutti ed è di nessuno allo stesso momento.

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