
di Gioia Chiostri
La ‘Festa della Famiglia’ riunisce due estremità dello stesso lembo della divisa arbitrale indossata più volte e più volte detersa con le lacrime del sudore. Da un lato v’è intessuto lo stemma sanguineo della famiglia d’appartenenza: forza unica, endogena ed eterna. Dall’altro, gli intarsi propri di un’altra famiglia, di acquisizione più recente, ma non per questo meno eroicamente duratura: quella della propria sezione arbitrale. Ad Avezzano, presso l’Hotel Dei Marsi locale, è andata in scena, il giorno 20 aprile, la celebrazione di una catena affettiva e fraterna. Più di 300 giacchette nere, elegantissime per l’occasione, hanno preso parte ad una ricorrenza di storia ventennale, ideata, come ci tiene a sottolineare il presidente stesso della sezione ‘Giacomo Ferri’ di Avezzano, Alfredo Leonetti, «proprio per creare il collante tra le famiglie degli arbitri e gli arbitri. La ‘Festa della Famiglia’ è un’occasione che, a mio avviso, serve sia ai genitori, per poter entrare in contatto con l’ambiente di svago e di crescita dei loro figlioli, sia ai figli arbitri stessi, perché, in questo modo, trovano la giusta prospettiva per ringraziare i loro parenti del sostegno ricevuto nel corso dell’anno».
La ‘Festa della Famiglia’, infatti, ha cadenza annuale e assomiglia ad una sorta di abbraccio collettivo fra associati e civili. Le sezioni arbitrali, una volta all’anno, spalancano le loro porte di legno massiccio verso l’esterno, permettendo a chiunque di poter sbirciare i loro ritmi tenaci e la loro passione personale. Arbitri da ogni angolo del brullo Abruzzo, accompagnati ognuno da un familiare (madre, padre, partner, figlio o figlia che sia) prescelto, hanno riaffermato ancor di più, in una serata svolta sotto il segno dell’appartenenza, la personale decisione di essere dei soldati della pace sportiva in campo per tutta la vita. Si può ben dire, di fatti, che «non diventa arbitro solo il giovane che sceglie di divenirlo, ma anche tutta la famiglia che si trova alle sue spalle». La serata ha avuto l’onore di veder seduti in tribuna ‘laica’ alcuni tra i più grandi nomi del mondo dei rigori fischiati ed assegnati, quali i vertici dell’Aia Nazionale, come il vice-presidente Narciso Pisacreta e il componente del Comitato nazionale Maurizio Gialluisi.
In prima fila, anche il presidente del Cra, Angelo Giancola e i tutti timonieri delle sezioni arbitrali d’Abruzzo. Durante la serata di festa, sono stati assegnati due premi più unici che rari, come da tradizione: il primo, di esistenza ultradecennale, intitolato a Gianfranco Cerone, ex dirigente sezionale e regionale scomparso il 1 maggio del 2003, di norma consegnato all’arbitro sezionale che, durante la stagione sportiva appena trascorsa, abbia dimostrato i più alti valori tecnici ed associativi. Il secondo riconoscimento, invece, è intitolato a Bruno Materazzi, detto il ‘presidentissimo’, ex condottiero storico della sezione ‘G. Ferri’ di Avezzano, scomparso nel 2009, a poche settimane di distanza dal Terremoto. Quest’ultimo, spiega Leonetti, «viene assegnato al dirigente più meritevole della stagione trascorsa; colui, cioè, che più di ogni altro, ha dato il maggiore apporto dal punto di vista tecnico ed umano alla sezione di appartenenza». Due i nomi innalzati all’onore della cronaca, quali quello di Nicola Berardis, vice presidente della sezione Aia di Avezzano e della prima ragazza arbitro vincitrice del premio Cerone, ossia Federica Montaldi, una vera stella nascente, di soli 19 anni (quasi), arbitrante, da poco, in Seconda Categoria.
Carismatico, il presidente dell’Aia nazionale, Marcello Nicchi, padre di un ‘fare arbitrale’ generoso e genuino, è stato accolto festosamente dalle giovani speranze atletiche della zona. «Più che un’emozione – afferma a IlCapoluogo.it – credo che, questa bella accoglienza, sia una vera e propria soddisfazione. Andare a visitare, periodicamente, le 210 sezioni italiane dell’Aia, sparse fra le diciannove regioni nazionali, significa andare a tastare con mano il verde speranza dello Sport. Fortunatamente, mi trovo dinanzi sempre questo meraviglioso spettacolo di abbraccio collettivo. Ragazzi perbene, educati, preparati, ragazzi, insomma, che conoscono le regole e che esportano in giro per tutti i campi d’Italia la cultura e il fair play: questo è lo spettacolo che vedo e che voglio sempre vedere. Questi valori, oggi, oserei dire che non sono esclusivamente importanti solo per l’atto dell’arbitrare stesso, ma rivestono priorità di coordinate guida anche per la vita civile di tutti i giorni. Questi ragazzi sono, in breve, veri esempi da seguire».
In Marsica, recentemente, la figura arbitrale è stata oggetto di vessazioni fisiche e verbali sul campo da calcio. Episodi, questi, assai spiacevoli e provvisti del segno meno dello sport. In che modo l’Aia si sta muovendo, anche in collaborazione con le società calcistiche, per mitigare questa ombra nera? «La violenza è uno degli aspetti più brutti della nostra società moderna; oramai, questa megera, alberga ovunque. Io credo fermamente però che, nello Sport, la violenza non possa e non debba esistere. Occorre, per rendere fattibile ciò, che tutte le componenti dello Sport si adoperino affinché essa venga allontanata ed eliminata. Oltre 400 violenze fisiche, vissute sulla pelle di questi ragazzi, sono davvero troppe nell’arco di un anno su tutto il territorio nazionale, operate poi da persone che io giudico senza mezzi termini dei reali delinquenti. Chi osa mettere le mani addosso, in ambito sportivo per giunta, ad un ragazzo di soli 17 anni che sta solo cercando di imparare ad arbitrare, è simbolo di vergogna. Noi dell’Aia, combatteremo, senza arrenderci mai, la violenza a spada tratta e tuteleremo tutti i giorni i nostri ragazzi, anche dal punto di vista legale. Questo perché nessuno deve permettersi di toccare un giovane ragazzo che va in giro per i campi da gioco ad esportare cultura e passione. La violenza non è calcio».
Il 2015, inoltre, ha visto ad Avezzano l’exploit di una ‘sottocategoria’ eccezionalmente rinomata, quale quella dei fischietti rosa. Tante le donne che, ultimamente, stanno incominciando a correre di pari passo con i colleghi dell’un tempo sesso forte, per tentare di raggiungere mete luminose anche in campo arbitrale. Loro stesse, partono dalla palestra sezionale. «Le donne, a mio avviso, – precisa Nicchi – stanno diventando oggi più che mai una componente importante di questo mondo. Loro hanno incominciato ad avere la possibilità di iscriversi ad un corso per arbitro all’incirca vent’anni fa. Oggi, contiamo più di 1800 donne facenti parte dell’Associazione: un bel traguardo. Sono molto brave, è indubbio, ma quel che più conta è che stanno crescendo molto velocemente anche sotto il punto di vista della preparazione atletica. Alcune donne, ad esempio, ci rappresentano brillantemente, in questo momento, in Serie A in veste di assistenti. Una, la donna che arbitra in Serie C; diverse, invece, quelle che arbitrano nei Campionati sottostanti. Non escludo che, in un domani quanto mai prossimo, la donna arbitro si possa affacciare ai più grandi palcoscenici sportivi. Una cosa, però, secondo me, l’hanno già conquistata e da parecchio tempo anche: la simpatia. Le donne hanno, a lungo andare, ingentilito le nostre sezioni: di fronte al gentil sesso, anche gli uomini si comportano meglio».
Come sarà l’arbitro del futuro? Nicchi è categorico: «Non dovrà mai essere autoritario, ma sempre autorevole. Dovrà continuare ad avere personalità e una preparazione fisica e mentale esemplare. Ci tengo ad aggiungere che l’arbitro di domani, non dovrà affatto divenire una macchina, ma dovrà conservare ad ogni costo la sua umanità. Proprio per questo, io credo che oggi vi siano ancora delle prospettive di sviluppo e di crescita per quel che concerne la figura arbitrale. L’arbitro è un professionista preparato, acculturato, una figura che sa fare gruppo e che lavora splendidamente in team; personalmente, credo che per questa Associazione, viste le basi di partenza, il futuro non possa essere che roseo». Anticamente, era il rito della vestizione a rendere puro un animo spurio. Oggi, indossare la divisa arbitrale significa indossare una fede: quella del rispetto del giuoco del calcio, del rispetto dei giocatori in campo e delle persone umane che si riscontrano al di là del colore delle loro maglie.
[i]Foto di Matteo Corradi.[/i]
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