Presepe aquilano

di Raffaella De Nicola

Il cielo stellato, quello messo sul fondale, dietro le montagne riempite di carta quando ero piccola, ora è blu cupo in questa notte che si allunga nel gelo del centro storico dell’Aquila. La città ha poche luci e facciamo compagnia ai cristalli di neve in un avvento che porti nuova nascita. Qui, le grotte, ormai le nostre case vuote, aspettano la buona notizia mentre noi, pastori di un presepe vivente, avanziamo in un centro silenzioso come nomadi in attesa di luogo. Intorno, dispersi, in altre botteghe, pochi gli artigiani o i commercianti: il calzolaio vicino la fontana luminosa, il macellaio per il corso, l’oste a Piazza regina Margherita, le varie locande e la notte, la sola che animi il centro nei giovedì e sabato sera.

Ora, invece, è buio, ad eccezione delle luci solitarie dell’albero in piazza Duomo, così come lo era la piana di Betlemme con i passi dei pastori che entravano, con povertà e speranza, nel primo Natale della Cristianità illuminati da una stella clemente che cerco, alzando lo sguardo con mia figlia, e che trovo invece nel sole dell’ideogramma bernardiniano, sopra le soglie delle case.

Scivola dall’architrave, questa cometa della storia aquilana, scende nella piazza e aspetta accanto a noi il ritorno di una città che ancora una volta si è nascosta allo sguardo umano.

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Qui, in una Betlemme che si compie negli alloggi che odorano di muschio e abbandono, ci muoviamo in questo presepe strapazzato, fra cattedrali di gru, aggrappati ad una preghiera rovesciata che scende verso terra. Il sole a dodici raggi di San Bernardino è velato, lo mostro a mia figlia, lo tocco, affondiamo le mani nella nostra storia, la mia unica religione, in un luogo che è ovunque presepe, in una Betlemme che è anche di Giuda, cercando lo strascico di una cometa mentre l’insonnia di un’ attesa accompagna anche questo Natale.

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