
di Gioia Chiostri
Il 19 aprile scorso, filologi, docenti dell’università degli studi dell’Aquila e professori provenienti dall’università ‘La Sapienza’ di Roma, hanno ragionato assieme, dando la possibilità di intervento e partecipazione anche agli studenti aquilani presenti, sul termine ‘filologia’ e sulla sua essenza semantica.
Raffaele Morabito, docente di letteratura italiana presso il Dipartimento stesso, organizzatore e primo promotore del seminario, ha aperto il sipario intellettuale, affermando «Non è un convegno quello a cui oggi si darà voce e corpo, ma un seminario vero e proprio. Per quanto mi riguarda, ho cercato di reperire qualche definizione del concetto stesso, enunciata sui più importanti dizionari. Per quanto concerne i testi destinati alla didattica, non traspare alcuna definizione del concetto di filologia; prendendo a prestito le parole che Benedetto Croce rivolse all’arte, la scienza filologica ‘tutti sanno che cosa sia’. Ad Alfredo Stussi si deve il libro più recente dedicato alla Filologia; eppure, anche qui, il concetto non appare».
«Nell’Ottocento – continua Morabito – si tendeva ad identificare la filologia con la linguistica; Fanfani la considerava una ‘scienza della parola’, così come Palazzi, nel 1955, sposa nuovamente l’identificazione fra discipline. Si arriva così al tardo Novecento, quando si è cominciato a parlare di mera ‘erudizione’, ma in senso peggiorativo. Per quanto riguarda, invece, i vocabolari, se si pensa al famoso prodotto dall’accademia della Crusca nel 1889, o al Garzanti, tutti convogliano nel dare una definizione letteraria del concetto filologico. Il termine ‘filologia’ viene dato come obsoleto da De Mauro, e spiegato in questo modo: la filologia è una disciplina che attraverso l’indagine linguistica mira all’interpretazione di documenti scritti. Per Gabrieli, di converso, la filologia è il complesso delle discipline che hanno come scopo la ricostruzione del monumento letterario. Anche nei testi scolastici si insiste in maniera esclusiva su questo pensiero. Nel manuale di Stoppelli, la disciplina filologica è vissuta come se fosse incastonata in un crocevia di molte altre discipline ‘sorelle’; il fine primario comunque è proprio quello di ricondurre un qualsivoglia testo alla sua lezione».
«Inoltre – spiega il docente – ogni storico deve essere in primo luogo un filologo: questo è un pensiero che ritroviamo esplicito in Novalis, pensiero ovviamente intriso di spirito romantico. Per Niccolò Tommaseo, infine, la filologia “è un’altra letteratura nelle sue relazioni con la civiltà”».
Pasquale Stoppelli, professore ordinario di Filologia della letteratura italiana presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, è stato un gradito ospite d’onore per l’intero dipartimento. «Il mio punto di vista è quello del filologo che si occupa di testi italiani appartenenti al periodo storico che va dal secolo XIV sino al secolo XX. Le cattedre di filologia sono tante ma le finalità sono all’incirca le stesse. Leggendo Pasquali, si comprende come le condizioni di propagazione del testo sono essenzialmente mutate dal Medioevo all’invenzione della stampa. Il vero spartiacque a livello di concezione del testo, non è la lingua, quindi, ma è l’avvento del libro stampato. Se riconosciamo come valido questo pensiero di Pasquali, più importante della lingua diviene il supporto. La filologia, di fatti, cambia a seconda del supporto; viene cioè riconosciuta una materialità al testo stesso (che non è più, quindi, semplice astrazione avulsa dal suo volto materico); le parole si fissano su carte e su pergamene. Oggi questa è una condizione assolutamente condivisa, e fa sì che il filologo nell’esercizio della sua disciplina, debba possedere delle competenze in settori di studi extra – filologici. Deve, in primis, possedere una competenza codicologica, linguistica e paleografica, se, ad esempio, si trova dinanzi ad un testo risalente al Trecento. Se il testo è moderno, invece, il filologo deve obbligatoriamente vantare una competenza bibliografica».
«Da sottolineare – continua Stoppelli – come fondamentale è, inoltre, un settore nato in ambito anglosassone, resosi necessario poiché la tradizione shakespeariana è totalmente a stampa, ossia la Textual Bibliography. In Italia è approdata tardi, attorno agli anni ’80, eppure la filologia nostrana ha seguito pian piano queste direttrici e ciò ha permesso di risolvere, ad esempio, il caso della seconda redazione dell’Amorosa visione del Boccaccio. Quali altri sviluppi si sono avuti in merito al settore degli studi filologici? Tre novità a partire dagli ultimi vent’anni del Novecento. La prima ventata innovativa si è avuta tramite l’introduzione della ‘filologia dei testi a stampa’; la seconda novità ha assunto, invece, le sembianze della ‘filologia d’autore’, e la terza si riallaccia all’esistenza delle banche dati».
«La filologia, inoltre – conclude – si sviluppa a valle e mai a monte; bisogna, per dirla con parole povere, andare a scavare nel percorso della genesi dell’opera; andare in cerca della prima scintilla che ha dato vita all’elaborazione del testo, il primo momento della messa su carta dell’idea letteraria. È questo un metodo di studio che permette di entrare nel laboratorio dello scrittore. I filologi moderni hanno molti materiali a disposizione, a partire dalle edizioni filologiche di grandi maestri, come la Commedia del Petrocchi o il Canzoniere di Contini o, ancora, il Decameron edito dal Branca. Rappresentano quest’ultimi, tre testi di grandi filologi, eppure oggi vengono messi in discussione alla luce di approfondimenti di carattere, ad esempio, paleografico. I progressi sono stati, inutile dirlo, notevoli».
È seguito l’intervento, a tratti ironico, di Anna Ferrari, apprezzata docente di filologia romanza presso il Dipartimento di Scienze Umane. «Per prima cosa – ha asserito – la filologia, contrariamente a quanto dovrebbe sembrare, non sta per scomparire. Io partirei da un’espressione emblematica, e cioè dal detto la philologie mène au pire. O meglio: l’arithmétique mène à la philologie et la philologie mène au pire. Questa celebre frase, che consiste, niente di meno nella lezione impartita dal professore al suo dottorando nella commedia francese la Leçon, è divenuta oramai lessico familiare. Ma perché la Filologia dovrebbe condurre al pire? La filologia davvero conduce al crimine? Per me la filologia è un perno della vita e deve essere vissuta fuori dal mondo accademico, fuori dall’Università, dal lavoro. A mio avviso, la Filologia è l’Ecdotica, quale rapporto tra Filologia e Storia letteraria. L’edizione dei testi si fa, a mio avviso, perché si vuole godere di quei testi. La Filologia serve, nella vita. Chi non ha mai utilizzato un’analisi filologica nel pettegolezzo, ad esempio?».
«Una delle prime testimonianze – spiega Anna Ferrari – del lavoro del filologo ci viene dal Pauly Wissowa, che afferma: ‘il vino rende filologi tutti quelli che ne bevono in abbondanza’. Oppure la splendida definizione della Filologia tratta dal Tommaseo – Bellini: ‘Chi ne sa anco senza trattarne, chi la insegna senza saperne e chi la pratica disprezzandola’. Quasi senza ombra di dubbio alcuno, l’ultima sentenza ha avuto sicuramente un destinatario, e cioè Giacomo Leopardi. Riconosco comunque un ruolo che nessuna filologia ha alla Romanza: i testi che tratta, analizza e rende fruibili, hanno fatto da modello culturale nella formazione di uno sfondo letterario in Europa».
Interessante anche l’intervento di una giovane filologa, Alessandra Paola Macinante, che ha proposto una esemplificazione concreta di quanto spiegato teoricamente dai vari docenti, cioè delle varie implicazioni reciproche tra filologia, ecdotica ed esegesi, a partire dall’analisi puntuale di alcuni loci difficili dell’epistola in versi petrarchesca a Giacomo Colonna dal titolo “Quid faciam, que vita michi rerumque mearum”.
La filologia quindi è un mare sconfinato nel quale naufragare. E, a volte, il naufragare potrebbe parere anche dolce, se il mare lo si scruta a fondo, con la consapevolezza di potervi ricercare un immenso tesoro.