Sei Aprile duemilanove tre e trentadue

6 marzo 2013 | 06:08
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Sei Aprile duemilanove tre e trentadue

di Valter Marcone

C’è un’immagine di città nel cuore e nella mente di ciascuno di noi. E’la città che vorremmo vivere e che viviamo nella realtà di tutti i giorni. La città che poco a poco ci siamo costruiti dentro, alla quale sentiamo di appartenere e che ci appartiene.

Le cento, mille città raccontate dalla letteratura, dalla cultura e dall’architettura, a partire dalla Gerusalemme celeste fino alle città immaginarie di Italo Calvino non hanno eguali nella realtà della vita. La vita dell’uomo nella quale diventano e sono un’altra cosa. E un’altra cosa è questa città dell’Aquila colpita dal terremoto del 6 aprile 2009 dilaniata, a pezzi. Tanto che da quattro anni non facciamo altro, nella nostra vita e in quella della comunità, che raccogliere quei pezzi tentando di dare loro un posto, combattuti tra la voglia di cambiare e la necessità di restare comunque fedeli alla nostra idea di città. Con un conflitto scatenante che non riusciamo a volte a padroneggiare. Una città che quindi diventa per ciascuno di noi che vede, sente e ascolta città apparente, effimera, inesistente, invisibile, invivibile, dolente, inanimata.

[i]Sei Aprile duemilanove tre e trentadue[/i] un segno sulla città percorsa da un brivido ma anche percossa e straziata.

[i]La città dolente[/i], [i]La città esausta[/i], [i]La città apparente[/i], [i]La città immobile[/i], [i]La città dell’anima[/i], [i]La città in cammino[/i], i temi delle poesie che da mercoledì 6 marzo saranno pubblicate con cadenza settimanale fino al 6 aprile 2013, anniversario di quel tragico evento, per tentare di raccontare appunto i pezzi di quella città che stentano a tornare insieme per restituire a ciascuno di noi la sua città.

LA CITTA’ DOLENTE

La notte che ci ha accecato il cuore

La notte dello smarrimento

ci raccolse doloranti, muti

e sbigottiti. La notte che caddero

le pietre – abbiamo visto

cadere le pietre – avevano occhi

come di acqua marina e palpiti

di secoli. Di polvere e di ombra

furono i nostri pensieri

e restarono nel freddo della notte.

La notte che dicevamo

– è l’ora della vita – ed era

come mordere una mela

correre tra i campi di grano,

bere acqua e bagnarsi sotto la pioggia.

La notte ci ha accecato il cuore

– una lunga, lunga notte –

lunga come gli sguardi

del nostro cuore per quelli

che scesero nelle tombe

per quelli che vivi ancora

mangiarono con la morte.

Ora camminiamo per dimore

transitorie e ci sovviene

ancora e ancora e ancora

il pensiero di quella notte

notte della città dolente

che attende ancora

il pane della speranza.

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