Attualità

Io ricordo

Ore 13,18 “Treno riservato da Roma Ostiense in partenza dal binario 1, allontanarsi dai binari

grazie”!

È iniziata così la nostra avventura a bordo del ‘Treno della Memoria’ partito il 18 novembre 2012

insieme a tanti altri ragazzi di tutta Italia provenienti dalle associazioni locali aderenti all’UDU, alla

Rete degli Studenti Medi e a pensionate e pensionati delle varie leghe Spi-Cgil italiane.

Le 28 ore

di viaggio si sono fatte sentire ma sono anche state l’occasione per informarsi ancora di più,

attraverso la biblioteca viaggiante, di quanto accaduto in quei luoghi e confrontarsi sulle aspettative

e sui timori che ciascuno dei 450 partecipanti aveva.

L’associazione ‘Terra del fuoco’ organizza questo evento ogni anno e più volte l’anno con l’intento di

far comprendere ai ragazzi delle scuole (anche ai più piccoli) le atrocità commesse nel periodo della

seconda guerra mondiale e far sì che, preservandone la Memoria, questi fatti non si ripetano più.

Stavolta, per la prima volta si è tentata una collaborazione con lo SPI-CGIL, l’UDU e la Rete degli

Studenti Medi. Mettere insieme ragazzi, giovani e adulti (alcuni dei quali hanno vissuto esperienze

tragicamente legate a questi avvenimenti) e vivere insieme questi luoghi offre alla mente una

maggiore possibilità di riflessione per i diversi punti di vista che si esprimono ma, allo stesso

tempo, fa comprendere quanto ricordare possa essere la cosa più significativa ed utile affinché

quanto compiuto non riaccada.

La giornata di visita ai campi di Auschwitz e Birkenau, in partenza, si prospettava strana. È come se

qualcosa si stesse concretizzando e la paura iniziale era forte; ci domandavamo che impressione ci

avrebbe mai potuto fare toccare tangibilmente quei luoghi, a cosa avremmo pensato; se, per una

specie di protezione personale, avremmo finito per vedere, senza davvero osservare.

L’impressione iniziale che si ha nel vedere la purtroppo famosa scritta “Arbeit macht frei” (“Il

lavoro rende liberi”) è quella di una vera e propria beffa, la prima di una lunga serie, nei confronti

dei deportati (circa un milione) che entravano nel campo.
Sicuramente il fatto che Auschwitz sia

stato adibito a museo inizialmente ha reso il clima meno pesante, più vivibile; tuttavia trovarci di

fronte alla scelta di un ‘compagno di viaggio speciale’ il timore e l’angoscia di trovarsi a ripercorrere

le sue stesse strade e, indirettamente, le sue stesse sofferenze, ha reso la visita un’esperienza di vita.

Marie Jelinkova e Agnieszka Baran ci hanno accompagnato al caldo di una tasca. La scelta del

nome e loro foto appesa su quel muro, il sorriso consapevole di Marie e gli occhi ridenti di un

passato che non c’è più di Agnieszka, ci hanno portato a fare nostro il senso di questo viaggio:

ridare dignità, attraverso il nome, a qualcuno che per anni è stato solo un numero, un oggetto,

nessuno in mano di persone spregiudicate.

Questi sentimenti sono stati presenti fino all’arrivo al secondo campo, quello di Birkenau, nel

pomeriggio. Qui è davvero rimasto tutto com’era: le baracche, i letti e la dinamica del ‘privilegio di

stare sopra in un letto a castello’, i binari, il canto triste degli attori che hanno egregiamente

rappresentato i momenti fondamentali della vita dei deportati, il percorso del Sonderkommando, i

laghetti dove venivano buttate le ceneri per cancellare qualsiasi traccia.

La commemorazione finale

e la lettura dei nomi, ognuno del proprio compagno di viaggio, legato alla frase “Io ti ricordo”.

Questo è stato l’apice dell’emozione, se vogliamo, di trovarsi lì, al freddo, nel tardo pomeriggio.

Ed è proprio da questo momento in poi che la consapevolezza s’è fatta strada: dal centro del campo

di ritorno agli autobus, ognuno per conto proprio, senza l’ansia di seguire una guida: ormai quello

che dovevamo sapere e vedere era fatto. Rimaneva la strada del ritorno, ognuno per proprio conto

ma tutti insieme allo stesso tempo. Analizzavamo in maniera quasi metodica, il sentiero di terriccio

fangoso, le buche, i rigagnoli, per poi lanciare uno sguardo al cono di luce del lampione (posizionati

ancora come allora).

Siamo a novembre, fa freddo. “Ma con la neve per terra che cosa avrà significato per loro con solo

un vestito sudicio di lana? Quale forza disumana possono aver avuto queste persone rinchiuse qui

dentro?” Il freddo era particolare, penetrante, surreale quasi, e non era un freddo dettato dalle

condizioni climatiche, era un freddo diverso: consapevole.Il giorno seguente la visita al Ghetto ebraico di Cracovia con la ‘famosa’ fabbrica di Schindler. Mai

e poi mai avremmo pensato di rivedere davanti a noi le scene di film e documentari e immaginare

come la vita potesse essere difficile, o meglio, come quella potesse essere Vita. Non ha nulla a che

vedere con il Vivere. Si trattava di un continuo sopravvivere per nulla, per una morte certa, per la

fine di tutto quanto poteva dare tormento.

Anche qui, ancora una volta, gli attori a rappresentare le

testimonianze vive della gente. Non era suggestione quella che ci veniva proposta, bensì la reale

rappresentazione della non-vita all’interno del ghetto, e sembrava quasi di esserci stati davvero

dentro. E il fatto che questa zona della città, ancora oggi, sia abitata quasi esclusivamente da

famiglie in qualche modo legate alle tristi storie della deportazione, che nessuno voglia tornare a

ripopolare questo pezzo di storia e ridargli dignità ha un effetto ancora peggiore. Probabilmente ha

subito una specie di effetto consacrativo, serve a non cancellare, ma se si volesse vederlo sotto

l’ottica della rivalutazione, dell’apertura, di un nuovo mondo possibile? Non ci sarebbe nulla di male

nel riportare alla vita questi luoghi, una vita che non hanno mai conosciuto all’interno del ghetto,

non è una sconsacrazione ma, anzi sarebbe una valorizzazione, un modo per dire: “Quello che è

successo io lo abito, affinchè non accada mai più!”.

Raccontare l’esperienza vissuta con il ‘Treno della memoria’ dal 18 al 23 novembre 2012 può, in

apparenza, sembrare molto semplice e appare quasi subito ovvio il fatto che quei luoghi colpiscano

negativamente l’animo e i sentimenti di un qualsiasi individuo. Viverla è un’altra cosa. È

immedesimarsi quasi ed è interrogarsi su come possano esistere al mondo delle persone che

persistono nel portare avanti le loro tesi negazionistiche, è interrogarsi su quanto la mente umana

possa essere potente e senza limiti, razionale, cattiva, crudele. Non folle, ma intenzionale. Il fatto di

aver potuto utilizzare il treno come mezzo di locomozione è stato un vivere ancora di più. La

partenza da Roma Ostiense (inizialmente non programmata) e lo scoprire che, per caso, si ripate

dallo stesso punto in cui i deportati avevano anch’essi preso il treno da Roma, le fermate in tutta

Italia negli stessi punti in cui partivano i vari treni-merci, le ore ritanati solo in sei in uno

scompartimento hanno reso, in particolare il viaggio di ritorno, più lucida e ricca di riflessioni

l’esperienza.

“[i]È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire[/i].” (Primo

Levi)

Maria-Giovanna Lotito (UDU Teramo)

Eugenia Brizzi (UDU L’Aquila)