All’Aquila, leggendo, si torna a giocare

di Tiziana Pasetti

Quando si partecipa ad un festival letterario quasi sempre si parte prevenuti. Sai già chi vuoi seguire e un tema conduttore esiste, è quello che sottotitola le varie edizioni, quello che scandisce gli anni.

Bello è però lasciarsi sedurre. Bello è non seguire la corrente.

Alla seconda edizione di Volta la Carta ci sono tanti grandi nomi. Ci sono anche, per fortuna, alcuni perfetti sconosciuti ai più. Gente che ama il mestiere della penna. E che ti fa scoprire un mondo.

Dante Bellini è uno di questi. Al Caffè Letterario ha presentato un libro, edito da Verdone, intitolato “[i]Il Paese dei Giochi di una volta[/i]”. Il paese (dei balocchi) si chiama Azzinano e si trova nella Valle Siciliana. Provincia di Teramo (giuro). I muri delle case, negli anni, sono stati dipinti da pittori naif provenienti da tutta Italia. Tema conduttore, i giochi di una volta. La cerbottana, il cerchio, la fionda, la campana, la caccia al grillo, lo schiaffo del soldato e tanti altri, a decine. La qualità dei dipinti è magnifica e guarda al grande Maestro Ligabue e alla sua erede spirituale, Annunziata Scipione, che proprio in questo centimetro di Paradiso è nata e cresciuta.

Il libro è luogo di memorie storiche colorate e validissimo manuale per imparare che giocare vuol dire misurarsi, sporcarsi, correre, saltare, afferrare l’idea di un sogno.

L’infanzia come rete di protezione per tutte le cadute che verranno, l’infanzia come lavoro, splendido e madido di sudore.

“Non avevamo nulla” dice Dante Bellini “ma abbiamo condiviso un tempo fantastico. Se qualcuno oggi mi dicesse ti do 10 milioni di euro però tu dimentichi quel tempo io rifiuterei”.

E’ uscito un anno fa, ma i buoni libri non scadono mai, “[i]Dove eravate tutti[/i]” di Paolo Di Paolo (Feltrinelli). E Paolo è venuto a trovarci, qui all’Aquila. Giovane e dotto, ti racconta il suo romanzo e cita con rispetto e nonchalance Manzoni, Stendhal, Moravia e Sciascia. Si domanda se esista una connessione tra lo sfondo storico e gli eventi personali di ognuno di noi. Si augura di poter arrivare, un giorno, ad essere semplice, cristallino.

A lui, ancora gli occhi e la mente ubriachi dei colori della Scipione – amatissima da Cesare Zavattini – ho detto scusa se non ti chiedo del terremoto o della politica odierna o del tuo libro. Tu giocavi? (graaaaaaaaaaaande giornalista, eh?)

Educatissimo, mi ha (pure) risposto: “Ho sempre passato molto tempo ad immaginare. Quando ero bambino mi perdevo nei miei pensieri e sognavo un’altra realtà, sognavo il mio futuro. Avrei voluto diventare un prestigiatore, oppure un burattinaio. Però ho sempre amato scrivere. Scrivere e giocare. Seriamente. Ecco, io credo che il gioco di un bambino sia una cosa seria. Scrivere è un gioco serio. E’ un gioco di prestigio. Devi creare quello che non c’è. Una magia grande.” Sorride, Paolo. “Quando non ero uno scrittore ma sognavo di diventarlo…quanto mi sentivo libero! Incredibilmente libero. Un senso di libertà che sapeva di tutto il possibile, in tutte le sue declinazioni. Non voglio sembrare ingrato. Sono molto felice, soddisfatto di quanto sta accadendo nella mia vita. Però rimpiango il me che sognava. L’emozione del mio primo libro autoprodotto, avevo 10 anni, era in copia unica. Dovessi dirti, quando ho preso tra le mani il mio libro “vero”, beh, non è stata la stessa cosa”.

La cerbottana. Incredibile. Avevo quasi rimosso. Quel giorno che andai in chiesa (ma la mossa l’avevo perfezionata al cinema) armata di penna bic senza cartuccia dell’inchiostro e big bubble alla fragola. Dopo attenta e gustosissima ciancicata presi di mira un paio di donnone appena uscite dal parrucchiere con dei capoccioni gialli e gonfissimi. Fu un attimo. Fiato. Soffiare.

E splendidi, davvero, i giochi di una volta.

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