L’Aquila, TeatroZeta: in scena “Muciara non è più un mare per tonni”

L’Aquila, 13 gen 2012 –  Il 14 gennaio alle ore 21.00, presso Teatro Zeta, Via Francesco Savini snc, va in scena lo spettacolo ‘Muciara non è più un mare per tonni’ scritto, diretto e interpretato dall’autore e attore trapanese Gaspare Balsamo, con la partecipazione straordinaria del pittore Orodè Deoro in azione pittorica, una produzionepovera dell’ aquilana Donatella Franciosi. 

Lo studio prende spunto dalla cultura della pesca del tonno in Sicilia e in particolar modo a Trapani. Non vuole essere una riproduzione nostalgica di un microcosmo culturale come quello del rais e della sua ciurma, piuttosto un percorso personale, quello della memoria dell’autore, delle sue emozioni e sensazioni. Un tuffo nel suo passato, quando bambino percorrendo la strada del mare sentiva l’odore aspro del tonno e cercava il punto, e in un presente dove la visita alla vecchia tonnara abbandonata e distrutta, metafora di una realtà piena di merce/munnizza contemporanea, racconta il tentativo di ricucire la nostra identità spezzata tra quello che siamo e quello che non riusciamo più ad essere. In questo senso ‘Muciara’ è uno studio sulla continuità.

scrivono di Muciara.

«Gaspare Balsamo fa innanzitutto tesoro della propria voce, e scorrendo solennemente il Vangelo secondo il Raìs Mimmo, incanala il racconto come fosse un classico cunto. Ma dalla tradizione siciliana si allarga presto a viaggio personale nella memoria questa Muciara, non è più un mare per tonni.Il mondo della mattanza e del suo frutto nella tonnara risuona epico e grandioso (e vi dominano i toni del cunto) ma la sua mistica è solo estetica, senza nostalgia né rimpianti. Tutta la cultura serve al narratore per tentare di capire il presente e le sue trasformazioni. Tanto più è grandiosa quella narrazione di tonni e tunnina, capaci di accendere di odori identificativi la litoranea percorsa da Balsamo bambino, tanto più insensato e inconoscibile è lo stesso sito oggi, trasformato da tonnara in centro commerciale, dal nome altisonante. Balsamo fa il suo percorso col corpo, la voce e il cuore, e alla fine nasce già la curiosità di conoscere la prossima tappa.»

Gianfranco Capitta – Il Manifesto

e di Orodè Deoro

«Quando per la prima volta mi sono imbattuto nei lavori di Orodè Deoro, ho subito pensato a Egon Schiele, non tanto per i soggetti rappresentati, quanto per come egli affronta la figura nell’oggi e per come intende il gesto artistico. Orodè si pone con un segno disperatamente poetico, testimone della fine di un’epoca. In un Occidente che precipita, stordendosi, danzando, avvelenandosi e guerreggiando, verso la catastrofe, il pittore e performer pugliese introduce una nota di tragico presagio e insieme ci regala il desiderio di eros, di vita, di passione, seppure le sue rasoiate e il suo continuo rapporto con l’oscuro, con la tenebra, con l’abisso. Quindi la sua diventa una drammatica avventura interpretata con lucida partecipazione al nostro tempo. La caduta è evidente, ma il rappresentato si muove in senso contrario rispetto a una decadenza estetizzante o a un freddo distacco, come possiamo vedere in molta pittura giovane. L’originalità di Orodè sta in tali componenti, in modo che il simbolo diventa parte integrante della figura e la malattia e la morte sono spesso trattate con una visione polarizzante. Nelle sue raffigurazioni, espressioniste e di getto, l’artista non vuole mostrare ciò che appare, infatti per lui è importante ciò che è lo "sguardo verso l’interno". Nei numerosi ritratti da lui eseguiti, Orodè riflette, in modo molto pregnante, una visione delle abitudini socio-culturali che alienano il mondo. La società ‘postmoderna’ si vede messa a confronto con una crisi d’identità. Di questo tipo di rappresentazione in passato si sono occupati scienziati come Ernst Mach, nei Contributi all’analisi  delle sensazioni (del 1886), e Sigmund Freud, nei suoi scritti sulla psicoanalisi (usciti nel 1900). L’individuo ha paura di perdere definitivamente il proprio Io e si mette alla ricerca di altre possibilità, che spesso non trova. La crisi del soggetto, la sua sofferenza e la sua "identità perduta", tematiche centrali dell’umanità, sono quindi attualissime, in un’epoca di riorientamento globale. Sappiamo che il senso di perdita d’identità è seguito da sentimenti di vergogna e di rimorso. In alcuni momenti si coglie un qualcosa di distorto nella relazione con l’altro, che la dipendenza è nociva e che se ne vorrebbe fare a meno, ma la constatazione di essere intrappolati in un modello dipendente fa sentire indegni e quindi spinge, ancora di più, verso l’abbraccio dell’altro, che accoglie e perdona, ben felice, talvolta, di possedere; ma è un’illusione, solo un’illusione. Forse l’ennesima. Infine la solitudine trionfa. Il tema della dipendenza affettiva è fra noi, sia per motivi psicopatologici sia per motivi culturali, e così Orodè lo interpreta, perché la dipendenza è una condizione mentale, un’importante fonte di sicurezza sostitutiva rispetto alle certezze dei valori in crisi e poi perché l’instabilità o la precarietà delle continuazioni relazionali tradizionali (coppia, famiglia) tende a selezionare stili di attaccamento ambivalenti o conflittuali, e a favorire la formazione di legami affettivi incostanti e deboli. Ed è di una debolezza che il nostro artista narra, di una debolezza ormai diventata sistema, assieme alla paura».

Gian Ruggero Manzoni –  ALI. Rivista d’arte, letteratura e idee