Tradizione

Paganica, la Corsa del Cappello

di Enrico Cavalli

La contestualizzazione dell’avvento del verbo ludico in età antica, nell’area di nostro specifico interesse, non può prescindere dal dato di diffuse usanze del periodo sabino-romano di Amiternum, le cui residualità a seguito dei divieti di intrattenimento pubblico, posti dall’editto di Teodosio nel 380 d.C., rimontano sino agli svaghi nei riti agresti, delle genti dei castelli fondativi di Aquila nel 1254.

Le tradizioni ludico-motorie risalenti alla conurbazione della “magnifica cittade”, saranno rappresentative di un vitalismo, ben oltre le fasi di decadenza dovuta a fattori politici e naturali dei secoli XIV e XV. Ci si riferisce alle istruzioni negli Statuti delle arti municipali, circa le gare campestri, lottatorie ed equestri, queste ultime, famose nel Subecquano, per i pali celebrativi di papa CelestinoV e San Bernardino Da Siena ed agli stessi divieti in vicinanza dei luoghi religiosi, di gioco della palla grossa ed i cui clamorosi interpreti, furono le nobiltà del principe Colonna e viceré napoletano De Cardona. Le scalate nel 1542 sul Gran Sasso del generale felsineo De Marchi, l’aquilano Tuccaro codificatore degli esercizi ginnici alle corti rinascimentali, preludono ad una vicenda sportiva che nel Comitatus Aquilanus, sarebbe stata antesignana extra Abruzzi.

L’esercizio ludico, finiti che echi del secolo d’Oro aquilano, avrebbe avuto delle estrinsecazioni, per nulla riconducibili ad una espressione di gioco afferente alla sfera psicofisica: tipo la degradante corrida nella piazza Maggiore e del Duomo, per ciò stessa imposta dai dominatori ispanici, e, in chiave più accettabile e di puro divertimento, all’ultima delle fantasmagorie dell’artigiano Bedeschini, vale a dire, di macchinari che scendevano dalla porta Castello, per rievocare le quattrocentesche evoluzioni equestri. Si ha la impressione che i giochi seicenteschi, siano occasione per parate ad uso e consumo dei gestori del potere; ad esempio, le feste di genetliaco dell’imperatore Filippo II fra il febbraio e marzo 1658, in pieno carnevale ed a piazza San Francesco, videro il mastro di campo, Girolamo Di Luna, cavaliere di San Giacomo e governatore di piazza, dirimere le dispute fra quattro squadriglie a spada, formate da otto uomini ed otto donne a cavallo, dopo un estenuante lento sfilare di tutti i bardati e blasonati partecipanti ed assistenti alla gara; effettivamente, censurabili tali sarabande, da un pubblico nemmeno numeroso, raccontano le cronache.

Il‘600 del fiscalismo imperiale, banditismo, sismi, pestilenze, limitava, insomma, le estravaganze dei giochi nel contesto aquilano, e,  se i gruppi elitari, si divagavano alle tenzoni degli accademismi arcadici e teatralità,  i ceti popolari  traumatizzati da certune mode ispaniche, recuperavano le arti equestre, come alle fiere di Arischia e Montereale, e, podistiche, tipo l’originale corsa del cappello a Paganica.

Capoluogo di riconoscibili Ville in età romana ed imperiale, con spiccate fisionomie religiose e nobiliari, Paganica, si accreditava nella Vallata dell’Aterno, a seconda piazza per ordine di importanza socioeconomica, dopo l’Aquila.

Dal 1650, a Paganica, alle celebrazioni dell’Assunta (Cfr.,E.Iovenitti, Paganica Attraverso i Secoli, 1973), andavano in scena momenti di svago civile, imperniati sul Palio lottatorio, richiamante genti da tutto il Circondario, con in premio al vincitore un Drappo di pregio fornito dalla bottega dei Cattani; a fare da contorno, a questo vero e proprio clou, la corsa dei sacchi, a giudizio di studi del secolo scorso, sostituita nel tempo dalla corsa degli asini similare alla vigente in Navelli, e, quella dei ragazzi, o, appunto, del cappello.

Erano esibizioni folcloristiche, di una realtà paganichese, a metà fra l’agricoltura e la montagna ed in grado di specializzarsi in artigianati di vaglia, come quello dei copricapi, che caratterizzavano la moda, non solo dei notabili d’epoca (Cfr.:”Renzo Tramaglino in gran gala, con penne di vario colore al cappello…”, Promessi Sposi, II).

Via via avrebbe superato nel gradimento locale, le altre gare della grande kermesse, la corsa del cappello e che inizialmente, vedeva, i giovani con la “camicia” (fuori dei calzoni e retta dal cinturino), contrassegnata da colori biancorossi, biancazzurro, gialloblù, verdeviola, ovvero, rispettivamente, dei quattro rioni trecenteschi di Colle, Piazza maggiore, Pietralata, Scarazze-Sant’Antonio,  sfidarsi, in un tragitto di tre chilometri: dal convento dei Frati Minori fino alla chiesa di Sant’Antonio Abate, laddove, i primi due baldi atleti toccanti la “Croce de Monterone”, si sarebbero invalsi, dell’ambito trofeo-copricapo.

La gara podistica, aveva svolgimento in luoghi carichi di significato della storia paganichese e non solo; i quattro borghi fortificati, erano stati presi da Braccio Da Montone nel 1424 e trasformati dal Gattamelata, il luogotenente del capitano di ventura umbro, a basi per l’assedio agli Aquilani, i quali nelle epidemie seicenteche ripararono nel comune avente per stemma il Moro “con la rosa”; il convento dei Frati Minori, fu teatro di scontro fra gli armati del casato Nannicelli e gli imperiali, un residuo delle sollevazioni per Masaniello nel 1648; ancora, il crocifisso a Sant’Antonio Abate, era uno dei simboli della devozione e arte dei metalli paganichese.

Probabile che nel’700, la corsa, abbia subito la modificazione a guisa di staffetta, ovvero, i concorrenti delle quattro squadre, si passavano come testimone il cappello; ne derivavano delle disfide, fra i contendenti e relativi sostenitori, anche accese per il sentimento di appartenenza al borgo natio ed a cui furono invitate le altre ville del composito comune paganichese, secondo letture postume.

L’atmosfera ludica, costituiva un’occasione di socializzazione nei quarti urbani e rurali in tutto l’Aquilano, talora,  motivo di turbativa dell’ordine pubblico e da eternare nella coscienza collettiva dei fatti e personaggi, legati a questo o quel genere di giochi, fosse ju zirè o la bazzica. Nella transizione dall’era borbonica a quella unitaria, si palesavano minori condizionamenti alla partecipazione ed allestimento dei momenti di svago popolare. L’etica del tempo libero/leisure time britannico, riceveva impulsi favorevoli alla sua impiantazione, non esclusivamente negli strati della borghesia, e, anche nell’Aquilano, il dinamismo dello sport avrebbe impresso il suo segno innovatore di costumi, non disgiunto dal riferimenti ad una interclassista tradizione agonistica, come la stessa corsa del cappello paganichese.