Conclusioni? Meglio un alpino di un politico

di Raffaella De Nicola

Alla fine ci sono arrivata, alla sfilata, il sole di fronte, il palco delle autorità più in là, lontano, così non sento le parole dei politici.

Voglio guardare, invece, solo loro, un corpo sconosciuto fino a quattro giorni fa e che ora vorrei non lasciare. All’avvio è stato un frullio leggero poi è montato come uragano, ci ha posizionati nell’occhio del ciclone e ci ha sospesi mentre tutto intorno rullava.

Alla sfilata sono dietro, lungo la strada. Poi, per una circostanza fortunata, mi posiziono proprio in prima fila e quasi arretro per l’impatto diretto con l’emozione che mi arriva di botto, mi sovrasta, non filtrata dalla massa che prima mi proteggeva. Vedo sfilare il centenario nato con l’eco della prima grande guerra, i mantelli che si chiudono a ruota sotto il colpo dei cannoneggiamenti, le terribili campagne gelide in cui questi visi, i nostri visi, erano solo migliaia di puntini vestiti di cenci in mezzo a cunei di ghiaccio.

Eppure sono ancora qui con i loro striscioni noi ci siamo sempre, per non dimenticare , i vivi e i morti sono con noi, il cuore degli alpini abbraccia il mondo, uniti nella tormenta tra le macerie, è dovere ricostruire è dovere ricordare. Tutto è sotteso alla memoria, ora è questa la loro battaglia, pali conficcati nella geografia di un mondo che tende a rimuovere, a scalzare i sacrifici, nel self service di un take away di emozioni che scorrono via veloci . E invece loro le afferrano, le emozioni, e le piantano nel ricordo di una storia comune.

Qui, in questa sfilata, ci si tocca, mi stringono la mano, qualcuno mi sfiora, si spezza l’ anoressia di contatto umano che ormai ci iberna.

C’è l’Italia di Albertone (Sordi) lo spaccone, salsicce broccoli e sfottò, c’è l’Italia del valore con questi medaglieri tintinnanti di eroismo, c’è l’Italia dell’italiano medio che ringhia e tira su la famiglia, i giovani con le bande, i padri che lavorano e infine i nonni, i veterani. Chi l’avrebbe mai detto che avrei visto il canto della Liberazione, delle partenze e dei ritorni, degli abbracci smorzati e ritrovati mentre i treni sbuffavano la loro impazienza, su quelle divise stinte e consunte, svolgersi sotto i miei occhi, in diretta, oggi che mi sembra Allora?

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Mia figlia dice “ho vissuto in tre giorni quello che non ho vissuto in 6 anni “. E allora la verità semplice mi appare afferrabile e folgorante, come le responsabilità. Sono le persone a fare i luoghi, perché i legami sociali si inscrivono all’interno di identità che rendono possibile continuare a scrivere storie collettive anche se lo spazio è bombardato. Ed è l’adunata a sentenziarlo, gli alpini ad insegnarcelo con il loro spirito di corpo, gli obiettivi comuni a confermarlo. Avremmo voluto il centro prima delle periferie, i luoghi affettivi più di quelli anonimi delle new town, occasioni più di falsi proclami. Un percorso diverso sarebbe stato possibile. E la prova provata è proprio lì, nell’adunata che anima la città. E’ Colapietra a trovare l’inizio e la fine della matassa ingarbugliata “meglio un macellaio aperto di un palazzo restaurato” ovvero meglio creare spunti di relazioni più che luoghi privi di vita quotidiana.[i] Ma i nostri cari politici, impettiti e presenzialisti, l’avranno capito che bella sveglia gli hanno dato gli alpini? [/i]

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